Prosegue l’omaggio di La7 al cinema di Nanni Moretti. Questa sera alle 21:10 Il Caimano, il film su Berlusconi con cui Moretti conclude una lunga riflessione sull’Italia della Seconda Repubblica iniziata (ante litteram) con l’analisi dello smarrimento della sinistra di Palombella rossa e proseguito con i film politici degli anni ’90. Riproponiamo un lungo estratto del pezzo di Giorgio Cremonini per lo speciale che la rivista dedicò al film nel maggio del 2006. (Cineforum 454, pdf disponibile qui)
Il caimano siamo noi
Quando Bruno scopre di non avere il denaro sufficiente per fare il film che è stato portato a volere (dagli avvenimenti e dal fascino della giovane aspirante regista Teresa), la decisione può essere una sola: se non si può girare l’intero film, se ne girerà una sola sequenza, quella del giorno in cui Berlusconi viene riconosciuto colpevole di almeno qualcuna delle disonestà commesse. Sta qui la svolta fondamentale del film, la ciliegia sulla torta di una sceneggiatura ricca e complessa: Berlusconi è interpretato da Nanni Moretti attore, che si presta, pur essendo fisicamente all’opposto del modello, a recitare quella parte. Ma forse recitare non è la parola giusta.
Mi spiego: i film di Moretti sono sempre stati caratterizzati da una recitazione straniata, a tratti declamatoria, brechtianamente epica; non si intravedeva mai la voglia di ricostruire una finta naturalezza; lui stesso conservava un’aria stralunata e un volto in cui solo gli occhi erano densi di vita, come Stoneface Keaton. Le parole erano dette molto spesso come se fossero lette e non aspirassero a disegnare un dialogo, ma una serie di monologhi («Ma quanti anni sono che parlo da solo?», si chiedeva in Palombella rossa). Invece in Il Caimano per la prima volta gli attori recitano, ovvero rinunciano alla straniamento del passato.
Lo straniamento riaffiora prepotente e acre solo nel finale, quando Moretti dice Berlusconi: le sue parole non devono essere recitate, quello che hanno da dire lo dicono in sé. Non è una macchietta, non è un personaggio. Quello che è ce lo dicono le registrazioni televisive e le sue parole, appunto, il suo anatema alla democrazia. Lo conosciamo anche troppo bene, non ha bisogno di imitatori: nel sostituirsi a lui, letteralmente, in una vera e propria beffa fictional, il viso di Moretti si fa veramente di pietra, come in Il portaborse, attraversato da un’ira gelida confermata dalle fiamme che illuminano sinistramente lo sfondo, oltre i vetri di un’automobile mortuaria (vengono alla mente le fiamme nel cielo del Vietnam alla fine di Full Metal Jacket: là i marines-bambinoni cantavano la «Marcia degli Amici di Topolino», qui il premier enuncia la fine della democrazia).
Lo straniamento e il suo ritorno perturbante nascondono tuttavia una beffa sottile. Non è certo per quel narcisismo che gli viene sempre rimproverato, come una formula di comodo, che Moretti si sobbarca una parte apparentemente così ingrata, seguito ideale di quella rivestita in Il portaborse. Quello stesso narcisismo da un lato irride, per evidente contrasto, il volto glabro e inceronato di Berlusconi dall’altro ci mette sull’avviso: tolte alla sua faccia, le parole di Berlusconi potrebbero avere la faccia di chiunque, la nostra come quella di Moretti. Il Caimano non è solo una valigia di soldi piovuta dal cielo, non è solo un incidente della storia: siamo noi, con la nostra ragione invecchiata e inadeguata persino a capire ciò che ci sta accadendo; con quel silenzio che dura ormai da dieci anni e passa; con il piangerci prigionieri di una situazione divenuta incontrollabile perché non abbiamo saputo e voluto controllarla; con il nostro ridere su quella che ci ostiniamo a considerare una macchietta sulla nostra storia; con un politicismo che tradisce per sterile e impolitica autoaffermazione. Il Caimano ci si offre come un contenitore in cui possiamo mettere tutti i capi d’accusa che vogliamo, ma che in un modo o nell’altro ci chiamano sempre in causa.
La fine della storia
«Come si può fare una commedia con quello che succede oggi?», chiede e si chiede la giovane Teresa. «È sempre il momento di fare una commedia», risponde lo stesso Moretti, con quella gioiosità sempre sull’orlo d’una crisi di nervi, un po’ isterica e un po’ disperata. Tuttavia non si può fare un film su Berlusconi come se fosse una farsa d’altri tempi, non servirebbe a niente, perché chi vuole sapere sa già e gli altri non vogliono sapere. La commedia non può essere solo questo. Forse dovrebbe essere, come diceva Georges Bataille, «quel passaggio, brusco e improvviso, da un mondo in cui ogni cosa è ben individuata, data nella sua stabilità, secondo un ordine generalmente stabile, a un mondo in cui tutt’a un tratto la nostra sicurezza è sconvolta e ci rendiamo conto che era ingannevole; e là dove avevamo creduto che ogni cosa fosse strettamente prevista è sopraggiunto [...] un elemento imprevedibile e sbalorditivo, che ci rivela una verità ultima: che le apparenze superficiali dissimulano una perfetta assenza di risposta alla nostra attesa».
Moretti sgretola lucidamente quest’attesa. Ci si aspetta che, dopo l’aggrovigliarsi frammentato delle diverse storie, il film approdi alla bella confusione di 8 e 1/2, all’appello al mondo di Il grande dittatore o al paradosso crudele di Monsieur Verdoux, tutti film in cui l’autore, con rispetto parlando, interviene in qualche modo di persona e dice la sua. Qualche eco felliniana si può sì riconoscere nella ruspa e nella caravella simil-Rex già citate, oltre che nella messa in scena di un mondo televisivo tanto rilucente quanto falso di Ginger e Fred, ma il contesto scava un abisso: non siamo di fronte a una crisi narcisistica dell’artista e alla sua sublimazione onirica, non siamo di fronte a una questione di gusto, ma a una crisi politica, nel senso più ampio e profondo della parola; sono i rapporti fra gli uomini (la politica, appunto) che vanno all’aria. Invece di approdare al sogno ironico su cui si chiudeva Palombella Rossa, Il caimano approda all’incubo, cifra fondante – e perturbante – del nostro tempo, italiano e non.
Cambiando radicalmente le carte in tavola, Moretti recupera in parte la gag della sostituzione di Il grande dittatore, ma non offre al pubblico un appello accorato, bensì una visione apocalittica, più vicina semmai a Il dottor Stranamore e alla sua lucida e terribile programmazione del futuro. Se Chaplin si metteva nei panni di Hitler, accusandolo di avergli rubato i baffetti, qui i baffi non c’entrano, Moretti non fa la caricatura di Berlusconi e del suo sorriso da gatto del Cheshire, ma ci pone senza mediazioni di fronte all’unica cruda verità di un personaggio che quello che di male poteva fare l’ha fatto. Lo sberleffo diventa tanto più acre e inquietante – ovvero comico e agghiacciante – proprio in quanto si avvale della distanziazione di una interpretazione nuda. Il Berlusconi di Moretti diventa il caimano che abbiamo intravisto innumerevoli volte, ma che in realtà non abbiamo mai veramente visto. Se le sue parole, in quanto dette da un altro, fossero anche solo un po’ convincenti in sé, sarebbe grave, significherebbe che non vediamo oltre la superficie. Vale quello che Roland Barthes diceva di Charlot: «Vedere qualcuno non vedere è il modo migliore per vedere intensamente ciò che egli non vede». Attenzione, dunque: Moretti ci osserva. E ci mette alla prova.