Questa sera alle 21:15 su Rai 5 andrà in onda Il caso Kerenes di Calin Peter Netzer. Il film, vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale 2013, mette in scena il rapporto tra una madre e un figlio contestualizzandolo attorno l'alta società rumena contemporanea. Ripubblichiamo un estratto della recensione che Giancarlo Mancini scrisse sul numero 526 di Cineforum (acquistabile qui).
[...] Il ritratto di una nuova classe di benestanti, professionisti, faccendieri che sostituisce quella dei funzionari di partito dell’era socialista. Dalla quale molti evidentemente devono essere venuti. Non è un caso che la macchina da presa voglia guardarli il più da vicino possibile. Hanno facce di chi ha saputo lucrare in momenti difficili per la Romania, la rivolta contro il potere centrale, il processo popolare al dittatore Nicolaj Ceausescu e a sua moglie, la fucilazione, la gravissima crisi economica per una nazione abituata a dipendere all’aiuto economico dell’Unione sovietica, il collasso di un sistema di potere, l’emigrazione di massa dalle campagne. Calin Peter Netzer, figlio di anticomunisti, era in Germania negli anni del tracollo del regime comunista rumeno. Rientrato successivamente, ha conosciuto solo gli anni della “ricostruzione”, della scalata al potere dei nuovi boiari, della sostituzione di un potere a un altro a volte da parte delle stesse persone. Forse anche per questo vuole far vedere con attenzione le loro facce rapaci, lo sguardo accorto con cui si guardano attorno, come chi è contento di farsi vedere così ricco e al contempo è attento a non rilassarsi troppo, lo spirito rapace del capitalismo appena insediato in quelle terre impone una vigilanza severa, felina. Poi però c’è un altro film, tutta questa gente sparisce di colpo, come se fossero delle controfigure, chiamate per offrire la loro presenza al vedutista che sta dipingendo lo sfondo. La macchina da presa smette di agitarsi, di fremere, non scrive più dentro il set ma ne resta fuori, vuole osservare con distacco quanto accadrà d’ora in poi. Cornelia non è solo una ricca signora della nuova borghesia, con la sua pelliccia fuori moda in qualunque altro posto dell’occidente, ma è una madre. La notizia dell’incidente di Barbu la coglie di sorpresa. Si precipita al commissariato, egli è illeso ma la sua macchina, una fiammante Audi, ha travolto un bambino e lo ha scaraventato decine di metri avanti uccidendolo sul colpo. Siamo lontani dalla capitale, in aperta campagna, in quel piccolo commissariato le cose non si sono messe bene, alcuni testimoni hanno già raccontato alla polizia come sono andate le cose e Barbu è indagato per omicidio. Quando Cornelia se lo trova davanti è ancora sotto chock, lo sguardo immobile, sembra catatonico, indifeso, non osa dire quasi nulla.
[...] Calin Peter Netzer riesce a tenere mirabilmente i fili che legano questo rapporto ossessivo tra madre e figlio con l’omicidio e la necessità di espiare la colpa. Egli ci conduce al punto in cui è naturale che debbano espiarla entrambi, ognuno a suo modo, ognuno come può. Ma questo implica il dover fare i conti ancora una volta tra loro due, ripetendo lo schema del figlio in fuga e della madre controllante. Carmen non può farci nulla eppure entrambi richiedono in qualche modo la sua presenza. È questo a distruggerla. Nessuno di loro sa neanche come si arriva nella località di campagna dove vive la famiglia del bambino ucciso. Netzer non gli risparmia nulla dal momento che non sono stati capaci di costruire nulla. Barbu una famiglia, visto che negli ultimi tempi, racconta Carmen, ha smesso anche di avere desiderio sessuale.Vuole una vita consapevole, tranquilla, della quale però è chiaro non essere capace né sa neanche da dove si comincia a realizzarla. Sa solo pensarla, agognarla, come i bambini aspettano il natale per vedere se sotto l’albero c’è quello a cui hanno pensato per tutto l’anno. È forse la ragione per cui ha sempre lo sguardo fisso nel vuoto e le poche parole che dice sono degli infantili moti di ribellione verso i genitori, presto rientrati a causa della consapevolezza di non riuscire a far nulla, di non avere la volontà per essere altro che un figlio. Perfino quando la madre gli chiede di presentarsi dai genitori del bambino per chiedere scusa va su tutte le furie, non può, non riesce, non vuole, si arrabbia, si sente non amato, aiutato, compreso, sembra una scena assurda eppure è così. Scappa di casa, come gli adolescenti a cui non è stato concesso il diritto di rientrare a casa più tardi del solito, l’ennesima deroga a una vita vissuta in attesa. Scappa e rinnega il padre, di cui non ha mai avuto troppa stima sperando forse un giorno di potervisi sostituire, e la madre, lacerata da ciò. Si macera lentamente, dal contatto tra di loro quanto la distanza era riuscita a diluire. La macchina da presa non vuole muoversi, aggiungere, sta ferma, con pazienza a osservarli in questa prova difficile. Il contatto con quei contadini lo temono tutti e tre, come si teme qualcuno che possa frapporsi al diaframma che hanno frapposto alla verità.