Il favoloso mondo di Amélie di Jean-Pierre Jeunet

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Questa sera alle 21:15 su TV8 c'è un vero e proprio film cult del nuovo millenio: Il favoloso mondo di Amélie. Ecco cosa ne scriveva Matteo Bittanti quindici anni fa su Cineforum 412 (marzo 2002).


Amélie rappresenta, a nostro avviso, un esempio emblematico di rimediazione. L’operazione di Jeunet è infatti estremamente complessa e merita di essere descritta nelle sue caratteristiche essenziali. Il regista francese non si è limitato, infatti, a riprendere, commentare, appropriare, ricontestualizzare altri testi filmici, ma ha utilizzato una pluralità di codici, tecniche e linguaggi provenienti da aree espressive eterogenee e proprie di media assai differenti tra loro. Tentiamo allora di abbozzare una mappatura “rimediata”.

In primo luogo, l’animazione. L’influenza dei cartoni animati è palpabile in ogni singolo fotogramma di Amélie. Non va del resto dimenticato che Jeunet ha esordito proprio con cortometraggi animati – L’evasion, 1978; Le Mabège, 1980; Pas de repos pour Billy Brakko, 1984 – realizzati insieme all’artista Marc Caro, con il quale realizzerà anche Delicatessen (1991) e La città dei bambini perduti (1995). Amélie può essere interpretato, allora come un omaggio a Tex Avery, ma anche all’estetica di Jacques Tati e, più in generale, ai cartoni animati. Pensiamo alla scena della tragica morte della madre di Amélie, schiacciata sotto il peso di un suicida gettatosi dall’alto di Notre Dame, che rimanda immediatamente alle trovate dei cartoons con Wile E. Coyote.

In secondo luogo, la fotografia. L’opera di Jeunet è una straordinaria riflessione sul medium fotografico. Questa rimediazione è attivata tanto a livello narrativo quanto estetico e linguistico. Nel primo caso, pensiamo alla presenza pervasiva di apparecchi fotografici, cabine e fotografie tout court. Nino raccoglie le foto tessere abbandonate nelle stazioni dellametropolitana. Per converso, il prologo ci informa che Amélie passa le sue giornate a fotografare il cielo di Parigi con la sua Instamatic Camera. E una volta cresciuta, Amélie fa recapitare al padre una serie di polaroid dello gnomo viaggiatore per convincerlo ad uscire da casa ed esplorare il mondo. Infine, i titoli di coda sono costruiti come un album di fotografie...

Amélie “rimedia” inoltre la pittura. Ogni singolo fotogramma del film è dotato di una propria autonomia. «Autarchia del quadro» scriveva Noël Burch. La mise-en-scène è ricca al punto da saturare lo sguardo. Il film è un colossale cut and paste, un tour de force di graphic design. Anche in questo caso, la rimediazione della pittura è esplicita: si pensi alla figura del pittore Raymond Dufayel (Serge Merlin) che, recluso in casa da oltrevent’anni per via di una malattia delle ossa, passa il suo tempo a ricreare, pennellata dopo pennellata, le opere di Renoir. Amélie è, anche grazie agli effetti speciali, un film “impressionista”.

Jeunet recupera le convenzioni proprie dell’immaginario letterario della fiaba, della poesia (Jacques Prévert in particolare) e del romanzo. Si pensi all’espediente della lettera indirizzata alla padrona di casa (Yolande Moreau), che sembra uscito dalla penna di Bergerac, ma anche al personaggio di Zorro, che viene citato direttamente. Anche in questo caso, la forma letteraria trova incarnazione in un personaggio: Hipolito (Arthus de Penguern). E non è affatto vero che Amélie è un film zuccheroso. Jeunet non perde l’occasione per stilettare lo spettatore con humour nero ed il cinismo tra le righe di un Kurt Vonnegut. Pervasive, inoltre, le estetiche del videoclip e della pubblicità. C’è uno spiccato rifiuto della frontalità: la macchina da presa è collocata quasi sempre sopra o sotto i personaggi. In alcuni momenti, i movimenti di camera tolgono letteralmente il fiato. La televisione – ed il suo linguaggio – ricorre in numerose scene: dall’annuncio della morte di Lady D., alle immagini dello sport (calcio, ciclismo, pattinaggio artistico) fino alla lettera in forma di videocassetta che il pittore Raymond – come l’O’Blivion di Videodrome – fa avere ad Amélie.

E poi, il videogioco. A parte l’utilizzo della tecnica digitale – che dei video giochi costituisce il linguaggio – il gioco si manifesta a livello tematico. La vita quotidiana nella metropoli francese diventa una sorta di caccia al tesoro – con tanto di indizi disseminati nello spazio urbano,manifesti rivelatori e frecce direzionali. La Montmartre di Amélie, come la Berlino di Lola corre, è allora uno spazio plastico, ludico, una vera e propria area di gioco anziché mero background.

Il prologo, che ci presenta il personaggio di Amélie, è uno straordinario pout-purri di stili. Dal cinema muto – con l’uso insistente dell’interpellazione ma anche alla vitalità innocente della protagonista – all’estetica di Mtv, con jump-cut, virtuosismi e montaggi frenetici. Questa prima parte del film – che include l’elencazione delle preferenze e delle idiosincrasie dei personaggi principali – riprende un lavoro precedente di Jeunet, il cortometraggio Foutaises (1989), ma strizza l’occhio anche all’estetica del cinema delle origini, il cinema delle attrazioni di cui ha scritto a lungo Tom Gunning, un cinema caratterizzato da quello che Burch aveva definito il «modo di rappresentazione primitivo», che Jeunet cita e stravolge allo stesso tempo.

Ma Amélie rimedia soprattutto il cinema francese, da quello degli anni Trenta – pensiamo al realismo poetico di Marcel Carné, Jean Renoir e René Clair – fino ad arrivare alla Nouvelle Vague. Pensiamo a Zazie dans le métro di Louis Malle, senza dimenticare la Parigi di Agnès Varda (Cléo, dalle 5 alle 7) e Jules et Jim di Truffaut, citato direttamente. Concludendo: Amélie è il cinema che mette in scena il cinema. Cinema come meccanismo, come finzione, come illusione. Amélie è tutto quello che il cinema italiano attuale non è. Il suo è un cinema visionario. Intelligente. Originale. Altamente ipermediato. Un cinema fantastico, in tutti i sensi del termine. Quarant’anni dopo Michale Drach – Amélie ou le temps d’aimer, 1961 – è ancora tempo di amare. Amare Amélie vuol dire, prima di tutto, amare il cinema.