Questa sera, per la Giornata della Memoria, Rai 1 (canale HD 501) alle 21:25 trasmetterà Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli. Riportiamo la scheda che scrisse Alessandro Lanfranchi per Cineforum 552. E proprio in occasione di questa giornata, non possiamo non segnalarvi che sullo stesso numero potete trovare lo speciale dedicato a Il figlio di Saul di László Nemes (al secondo posto tra i migliori film del 2016 secondo noi di Cineforum e vincitore del premio Oscar come miglior film straniero).
Francoforte, 1958. Una pesante coltre di silenzio si libra sulla Germania, è nel cielo, nelle strade, nelle case, nei tribunali, nel cuore e nella mente di tutti i tedeschi. Complice la disperata necessità di non perdere il treno dello sviluppo economico, il Paese sconfitto durante il Secondo conflitto mondiale sembra aver dimenticato gli orrori commessi qualche anno addietro, testimoniando il celebre allineamento tedesco che Hannah Arendt denunciò con orrore e sofferenza. «Sono in molti», scriveva la pensatrice nel 1948 «a condividere la responsabilità senza alcuna prova visibile di colpevolezza», e Giulio Ricciarelli, milanese di nascita e tedesco d’adozione, dirige un film lineare e spontaneo in cui, oltre a un’importante suggestione legata alla banalità del male, tenta di descrivere e pensare la Shoah a posteriori, stupendosi di come le schegge di quell’esplosione mortale siano ancora conficcate nella carne e nella coscienza delle vittime quanto dei carnefici, nonostante sia passato più di un decennio.
Il cinema si trasforma, come spesso accade nei film commemorativi, in un mezzo per testimoniare ciò che è stato, opportunità per riaprire vecchie ferite e ripensare, tutti insieme, senza distinzione alcuna, a come i confini che «separano i criminali dalla persone normali, i colpevoli dagli innocenti, siano stati erosi a tal punto che nessuno in Germania era in grado di sapere se l’uomo di fronte a noi era un eroe o qualcuno che si è macchiato di omicidi di massa». Ricciarelli si muove proprio su questo territorio pericoloso, imbastendo un film che si muove tra la fiction e la realtà storica, mostrandoci i disperati tentativi e le angosce morali che hanno portato al celebre processo di Francoforte del 1963, dove, per la prima volta, la giustizia tedesca condannò ex soldati nazisti (alcuni appartenenti alle SS) che avevano preso parte, più o meno direttamente, al genocidio ebraico.
Tra gli imputati ci fu Richard Baer, comandante dei campi di concentramento di Auschwitz e Mittelbau - Dora, che al tempo viveva in tranquillità e serenità nella cittadina tedesca; ma non si trattò di un caso isolato: il regista italiano, attraverso gli occhi del giovane avvocato Johann Radmann (Alexander Fehling), mostra come, grazie al progetto di reintegrazione promosso dal cancelliere Konrad Adenauer nel 1949, moltissimi criminali nazisti vivessero normalmente in Germania, come si fossero reinseriti nella società facendo i lavori più disparati (dal fornaio all’insegnante) e come nessuno, nonostante gli anni trascorsi, fosse a conoscenza di ciò che avvenne nei campi di concentramento («Cos’è Auschwitz?», chiede il protagonista all’amico Thomas Gnielka, giornalista e sopravvissuto allo sterminio).
È proprio un labirinto verso la verità quello percorso dal giurista Fehling ma è un labirinto anche per Ricciarelli, il quale, con lo scorrere del minutaggio, nonostante le interessanti riflessioni sulla natura umana e sui fantasmi del passato, sembra perdersi in corridoi laterali e mancare la retta via che avrebbe condotto ad Asterione. La pellicola, infatti, ricalca uno stile televisivo talvolta fastidioso e didascalico, in cui la regia si appiattisce su una sceneggiatura ben strutturata ma troppo vasta, quasi onnicomprensiva, dove al vissuto personale del protagonista, lacerato dall’amore per Marlene Wondrak (Friederike Becht) e dal crollo del mito paterno, vengono accostati problemi filosofici, sociali e politici la cui trattazione è quanto mai banale.
Di una cosa, però, non possiamo non rimanere stupiti: il silenzio verso i carnefici che aleggiava nella Germania del primo dopoguerra sembra, in fondo, non essersi mai completamente sciolto, anche nel Belpaese, e ritorna, ogni volta più potente, quando ci facciamo convincere che tacere ed essere responsabili è meno grave che essere colpevoli.