Questa sera su Paramount Channel (canale 27) alle 23:00 Jackie Brown, il terzo film diretto da Quentin Tarantino (1997). Un'opera che non può sottrarsi al confronto con le due precedenti: Le iene e Pulp Fiction. Pubblichiamo alcuni estratti della scheda che Leonardo Gandini scrisse per Cineforum 373.
Thriller esistenziale a malessere diffuso
È opinione comune che il film più difficile, per un esordiente di successo, sia il secondo, una sorta di banco di prova in cui è chiamato a confermare tutto quanto di buono è stato detto sulla sua opera prima. Nel caso di Tarantino, invece, i film d'esordio possono essere, paradossalmente, considerati due, almeno a giudicare dal massiccio fenomeno divistico e critico che ha accompagnato l'uscita di Pulp Fiction, imperniato appunto sull'idea che a Hollywood fosse nata una stella, un enfant prodige della regia, un Mozart del racconto cinematografico, qualcuno destinato, insomma, a rinverdire i fasti della genialità trasgressiva di Welles. [...]
Eppure, è con i suoi film precedenti che Jackie Brown deve, comunque, fare i conti. [...] Ma, se è tipica dell'autore la decisione di conservare le proprie ossessioni e passioni, di filmare sempre e soltanto le storie che si amano, quella di adottare una messa in scena del tutto diversa dalle precedenti è propria del regista che vuole crescere, cui acquisire una certa padronanza del linguaggio cinematografico preme più che rimanere all'altezza della propria fama.
Jackie Brown si apre con un lungo movimento di macchina che segue da vicino la protagonista, intenta a raggiungere, nell'aeroporto di Los Angeles, il bancone della compagnia aerea per la quale lavora come hostess. Troviamo in questa sequenza, a mo' di esergo, la cifra stilistica privilegiata del film, che prevede che i personaggi siano appunto osservati a lungo, e a distanza ravvicinata, nei momenti in cui più sono assorti, persi nei loro pensieri: alla guida di un automobile, a casa propria, mentre camminano, fumano, bevono. Se in Pulp Fiction (come, del resto, nei romanzi di Leonard) la caratterizzazione dei protagonisti era affidata essenzialmente ad una serie di dialoghi rapidi e spumeggianti, qui per contro Tarantino punta sulla capacità della macchina da presa di penetrare un volto, di scovare un'espressione, di "leggere" il pensiero e gli stati d'animo dei personaggi. I quali ci appaiono, con la sola, parziale eccezione di Ordell, dall'inizio alla fine ripiegati su se stessi, introversi, assestati su una posizione di taciturna difesa dal mondo e dal prossimo. La persistenza dei primi piani, uno dei tratti distintivi del film sotto il profilo formale, diventa allora il grimaldello che ci permette di fare la loro conoscenza.
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Differenza sostanziale, e rivelatrice di un atteggiamento profondamente diverso nei confronti del genere, di cui ora Tarantino preferisce i margini, i contorni, le zone d'ombra, i vuoti. Più Melville che Fuller, insomma, tanto per rimanere nell'ambito dei cineasti da lui prediletti. Difficile stabilire sino a che punto questa scelta per Tarantino sia stata spontanea, o piuttosto indotta dalla consapevolezza di essere stato, dai fan come dai detrattori, incasellato dentro un ruolo, quello di poeta della violenza, di re del pulp, che avrebbe, presto o tardi, finito per ingabbiarlo, e che occorreva quindi abbandonare al più presto. [...]
La presa di distanza di Tarantino da se stesso, nel rispetto comunque di un approccio originale e mai convenzionale al genere, passa evidentemente anche attraverso la messa in scena della violenza. Quando può, egli la evita: sono ben due le sparatorie, con corredo di morti violente, che non riprende dal testo originale; [...]. In quanto agli episodi di violenza che non era possibile eliminare senza snaturare del tutto il soggetto di partenza, vengono risolti attraverso un gioco di fuori campo (la morte di Melanie) e campi lunghi (le morti di Beaumont e Louis). Soluzioni che lasciano trapelare da una parte l'intenzione di coniugare la tensione drammatica alla concisione descrittiva, alla sintetica impassibilità di uno sguardo mai compiaciuto, e dall'altra quella di utilizzare la morte quasi come un incidente di percorso, una brusca quanto improvvisa e inattesa cristallizzazione di un senso di malessere diffuso che attraversa il film, […] la sfida dunque consiste questa volta nel trovare una messa in scena funzionale al compito di far emergere le ferite interiori dei personaggi, più che quelle esteriori. [...]
Anche i funambolismi temporali di Tarantino, le sue acrobazie sul filo della consequenzialità narrativa, vengono, in questo film, limitate, circoscritte ad un episodio soltanto, la cui complessità ed importanza, peraltro, giustificano in qualche modo la moltiplicazione dei punti di vista sull'evento. […] Tarantino pare dunque, volutamente, fare un passo indietro rispetto al suo cinema precedente, un passo compiuto nel segno della discrezione, del controllo stilistico più rigoroso, soprattutto del rispetto per la narrazione e le figure di primo piano. [...]
Sul talento di Tarantino nella scelta degli attori si è detto e scritto molto, così come sulla capacità di lanciarne (Michael Madsen, Samuel Jackson) o rivitalizzarne (John Travolta) le carriere in virtù di ruoli scritti con grande perizia. Ma è in questo film, ancora più che negli altri, che Tarantino si rivela uno straordinario regista di attori, capace di tenere gli interpreti su registri bassi, poco appariscenti, consoni a questa vicenda implosa, in cui tutto pare covare sotto la cenere. Facile dirigere un cast, quando i dialoghi sono numerosi ed effervescenti; più problematico quando, come in Jackie Brown, il cuore del film passa attraverso gli sguardi, i silenzi, le esitazioni. E qui che l'(ex) enfant prodige dimostra di essere diventato cineasta maturo, capace di orchestrare nel suo complesso una recitazione sommessa, perfettamente in sintonia con l'idea di costruire un thriller triste e malinconico.