Questa sera su Rai Storia (canale 54) alle 22:10 andrà in onda Liberami di Federica Di Giacomo. Documentario del 2016, vincitore come "miglior film" nella sezione Orizzoni alla 73ª Mostra del Cinema di Venezia. Ripubblichiamo la recensione di Alessandro Uccelli uscita su Cineforum 559 (acquistabile qui).
Un altare settecentesco, una sedia di ferro e pvc, marrone, di quelle che solo in parrocchia: una donna in carne, di spalle, un asciugamano sulla nuca. No, non si fa i capelli in chiesa: un prete in tunica bianca legge un’invocazione a Dio, richiede un aiuto all’Arcangelo Michele per il “combattimento” che sta per avere luogo. Liberami si presenta come un film di fronte al quale è assolutamente possibile sorridere, ma che non può essere affrontato con leggerezza: e questo primo confronto tra il sacerdote e la possessione rimane sospeso sui rintocchi di una campana, mentre la voce che proviene dalla donna si fa grossa (ma mai davvero “altra” né “maschile”), ne rivendica la potestà.
Federica Di Giacomo, pur dichiarando come modello Mettler e Wiseman, non riesce a resistere alla tentazione di affezionarsi alle persone fino a enfatizzarne il ruolo, a farne personaggi. In un cimitero un gruppo sta guardando l’eclissi solare con un frate: è padre Cataldo Migliazzo; per lui è un gioco facile, mentre i fedeli vedono il volto di Cristo nelle macchie solari, rimarcare nel fenomeno astronomico il confine labile e transitorio tra la luce divina e le tenebre del demonio. Subito dopo, tornando a Palermo, il padre benedice l’auto con una formula improvvisata, sgrammaticata, teneramente menagrama: sono momenti di una dimensione quotidiana, non filtrata, che anticipano come il diaframma tra la commedia e l’orrore profondo sarà sottilissimo.
Ma evidenziano anche come un lavoro che avrebbe voluto occuparsi estensivamente delle messe di liberazione, dell’incremento esponenziale di richieste d’esorcismo, rischi di diventare un ritratto potente ma sbilanciato di questo francescano quasi ottantenne (che ha la voce che ricorda, in maniera impressionante, quella di Elio Pandol ). Padre Cataldo è una persona umile eppure sicura del proprio carisma: in ogni senso. Ogni momento, ogni confronto con un presunto posseduto diviene la messinscena consapevole di un rito, rigorosamente sorretto dalla parola: messinscena serissima, che culmina in un memorabile esorcismo al telefono, un passaggio di stato dall’alterazione alla “normalità” che si impone senza stacchi d’immagine, «e buon Natale in anticipo».
L’antagonista, ovviamente, è il disagio che assume la voce e la gestualità scomposta del demonio – e da questo punto di vista Di Giacomo non si mostra scettica, ma di sicuro prudente – e i volti (o le spalle, per discrezione) delle varie donne che sperano di liberarsi; della famiglia che vorrebbe esorcizzare il bambino che non vuole andare a scuola; del cantante fallito che imputa le proprie disgrazie alla possessione; del giovane rabbioso e fragile con le sue dipendenze; della ragazza con delle “medianità” che rivede in flashback (!) la propria “liberazione”; dell’aiutante forse sanato a cui è stato “diagnosticato” Asmodeo. Già, perché i diavoli sono diagnosticabili.
D’altronde, negli stessi Vangeli, è più facile diagnosticare una possessione che un’epilessia, un demonio piuttosto che una nevrosi o una psicosi, come ricorda Costantino Gilardi, allievo di Lacan e padre domenicano, che nel film ovviamente non c’è, non solo perché è di un’altra parrocchia, ma anche perché agli esorcismi preferisce la psicoterapia, e il Siracide (X, 5-8), come già ricordava Freud, è dalla sua parte «Chi accusa Satana accusa se stesso»: il diavolo è spostamento del disagio interiore su un’entità esterna, fittizia, proiezione delle zone d’ombra dell’Io. Perché c’è un altro personaggio di peso, nella battaglia tra l’esorcista e il maligno: c’è il dubbio che possa trattarsi di un male psichico. Il dubbio che sembra percorrere la tavolata di giovani preti all’Ateneo Pontificio, dove il film si chiude e, in alcuni casi, sembra pur brevemente farsi strada in Padre Cataldo. «Non siate impazienti. È tutta gente che soffre», dice nel corso del film. E lui, nel dubbio, la esorcizza.