Questa sera su Rai Movie, Lincoln di Steven Spielberg al centro di uno speciale su Cineforum 522. Leggi l'estratto dal pezzo scritto all'epoca da Alessandro Uccelli. L'intero fascicolo è disponibile come arretrato in carta e pdf.
Di fronte all’ingombro della figura storica e delle sue contraddizioni Kushner e Spielberg non rinunciano alla tentazione di tratteggiare un presidente-profeta (e, in fondo, anche il Memorial, nella sua struttura, accentua il ruolo di Abe Lincoln come nuovo Mosè, iniziatore di una nuova alleanza). Come un profeta, il Lincoln ipermimetico a cui Day Lewis presta corpo e voce – che pare talvolta essere fragile e curvo come un albero secco, quasi una creatura uscita dalla fantasia burtoniana – si esprime non solo in orazioni, ma anche in parabole e aneddoti astrusi, il cui significato allegorico non è sempre immediato: da qui i tanti momenti in cui la macchina da presa indugia sulla prossemica, sull’interazione fisica tra il presidente storyteller e il suo uditorio più o meno ristretto, e più o meno paziente (similmente in Munich era descritto il potere affabulatore di Golda Meir): impagabile, tra gli altri, il segretario di Stato William Seward (David Strathairn, che somiglia in maniera impressionante a Giuliano Pisapia, e questo può distrarre in più di un’occasione).
Per Spielberg, la cui filmografia è costellata di sto- rie di padri assenti, il profeta è però anche un padre, il capo di una famiglia disfunzionale, che ha tentato di rimuovere il lutto per la perdita prematura di un bambino immergendosi nella causa politica, pur riu- scendo a essere modernamente affettuoso col figlio minore, Tad, al quale concede lo svago, pre-cinematografico e spielberghiano, di ammirare in controluce, fantasticando, alcune lastre fotografiche con figure di schiavi. Più complicato è il rapporto con Robert (Joseph Gordon-Levitt), il figlio maggiore, che ricerca una propria autenticità arruolandosi contro il parere dei genitori.
Ma il vero problema in famiglia è Mary Todd (Sally Field, che riesce a contenere al meglio la propria tavolozza espressiva), una First Lady a metà, malinconica, oggi forse la definiremmo bipolare: il rapporto coniugale, che in Team of Rivals è il presupposto per riscrivere la Storia da un punto di vista originale, nel film diviene il contraltare, nevrotico, del court drama, dell’“epopea dell’emendamento”, con vere e proprie scene da Kammerspiel ibseniano, servite dalle scenografie minuziose di Jim Erickson e dalle riprese in chiaroscuro di Janusz Kaminski, con un effetto calligrafico dal sapore paradossalmente molto europeo. Molly, autentica donna del Sud, è anche uno dei pochi personaggi, per via del rapporto con la sua cameriera personale e confidente, la ex schiava Elizabeth Keckley, a mostrare un’empatia diretta con gli schiavi emancipati (siede con loro sugli spalti della Camera durante le discussioni per il voto).
Si è rimproverato a Spielberg di aver lasciato a margine, abbozzati, i personaggi afroamericani (e d’altronde gli si era rimproverato, in Amistad di aver esagerato il ruolo di John Quincy Adams): ma è forse una forzatura politically correct, applicata a una nar- razione che si impernia programmaticamente sulla parzialità del punto di vista: la promulgazione di una legge da parte di un congresso di bianchi, per ragioni non esclusivamente né limpidamente egualitarie, attraverso la messa in risalto dei giochi torbidi della politica. È emblematico lo scambio, al limite dell’incomprensione, proprio tra Lincoln con la Keckley, alla quale dichiara “I don’t know you, any of you»: non bastano le lastre di Tad, né le conversazioni coi soldati della Kansas Coloured a colmare la distanza che comunque esiste tra loro.
Spetta a Tommy Lee Jones il compito sparigliare la questione razziale, rubando la scena a Day-Lewis: presentato in alcuni momenti chiave in aula come un accanito radicale e un formidabile retore, il suo Thaddeus Stevens («The old nightmare»), è al centro di una delle sequenze genuinamente commuoventi del film: il suo rientro a casa, con la bozza dell’emendamento, il montaggio che evidenzia il contrasto tra la farragine dell’uomo piegato dagli acciacchi e l’esaltazione per il conseguimento dell’obiettivo di un’intera vita; lì, deposti il bastone e il parrucchino grottesco, lo attende la ex governante nera con cui vive more uxorio da anni, Lydia; da lei si fa leggere e rileggere la bozza, quasi fosse una fiaba della buonanotte, ma è solo «the greatest measure of the 19th Century, pas- sed by corruption, aided and abetted by the purest man in America».
La partita di Stevens e Lincoln, della corruzione e della purezza è vinta; quella del cinema rimane aperta: il racconto dell’Abolizione da un punto di vista afroamericano è un altro possibile soggetto, un’altra faccia della stessa Storia.