La scorsa settimana, a Cannes, Valeria Golino ha presentato il suo secondo film: Euforia. Questa notte, invece, su Rai 2 alle ore 2:00 andrà in onda la sua opera prima: Miele. Presentata sempre a Cannes (2013) nella sezione Un Certain Regard. Su Cineforum 525 (acquistabile qui) Elisa Baldini scrisse una recensione a riguardo, ne ripubblichiamo alcuni estratti.
Miele è il nome in codice di Irene, perché il miele addolcisce i bocconi amari, le cose insipide, quello che non si riesce, altrimenti, a mandare giù. Come il fatto di dover morire senza aver deciso che era arrivato il momento, anzi, peggio, prima anche solo di averne concepito l’idea. Miele è un angelico gregario che ti accompagna verso la fine della pena, con fredda e professionale disillusione, chiedendoti fino alla fine se sei veramente convinto di voler morire per procura, quando la domanda appare sorniona e retorica, visto che il tuo volto è disfatto, la carne a pezzi, le membra non reggono più. Spegnere un interruttore quando sai che è l’unica cosa da fare, ma è anche l’unica cosa da non fare mai.
Morire in anteprima sta tornando a essere sempre più diffuso, ma, a differenza di un passato in cui la morte si collegava fisiologicamente a un andamento naturale delle cose, a un’accidente necessario perché il Cosmo proseguisse il suo corso (quando, per capirsi, l’odore della terra si sentiva sempre, non solo ai cimiteri quando si alzano le zolle), si parlava di morte con meno difficoltà, e si rappresentava meglio. Forse la differenza sta nell’abitudine oramai desueta a credere che ci sia un qualcosa dopo: nel 2013 se muori, muori e basta. E se credi di morire solo su questa Terra perché c’è un’altra dimensione che ti accoglierà, sei sempre più un privilegiato con pochissima compagnia.
Anche lo spazio in cui si accoglie la morte conta: si decede in territori asettici, circondati da oggetti sterilizzati, collegati a macchinari astronomici con funzioni sconosciute e molteplici, mentre tutti intorno a noi si affannano per cancellare fino all’ultimo qualsiasi segnale di deturpazione fisica, di traccia ematica, di sporcizia escatologica, esercitando un’azione pulente, disinfettante, lenitiva continua e indefessa, volta a cancellare, censurare, rimandare la plateale presa di coscienza della fine che insudicia tutto.
L’esordio alla regia di Valeria Golino è un film semplice, che ha capito queste cose, e le racconta senza guizzi, ma anche senza prevedibili inciampi. […] Miele è un’onesta via di mezzo che non sconvolge e non offende nessuno, e questo non basta a renderlo un film necessario. Anche perché lo sforzo di non cadere oltre la linea del lecito rappresentabile, in alcuni momenti, è così visibile da diventare esso stesso trama dell’immagine, esplosione autoriflessiva, sfrontato sguardo in macchina.
[…] Irene fa il lavoro sporco, quello che i medici veri non hanno il coraggio di fare, e nonostante la sua vita fuori dalla missione sia un tentativo ininterrotto di alleggerirsi attraverso l’amore distratto, il divertimento stordente, lo sport ossessivo, a un certo punto il cuore smette di battere qualche istante, e il panico la assale come un fiume in piena, riportando il paradosso emotivo dove è stato forzatamente espulso in nome della giusta causa.
E poi Irene incontra una forma più subdola di malattia, quella che mina insanabilmente la volontà e il desiderio, e ne è inevitabilmente spiazzata. Per lei la salute è sempre stata la conditio sine qua non della vita (si sottopone a continui controlli medici vittima di un’ossessiva quanto scontata ipocondria), e quando scopre di aver fornito inconsapevolmente gli strumenti per uccidersi a un uomo clinicamente sano è messa improvvisamente di fronte alla pesantezza del suo mestiere, in bilico tra funzione salvifica e tendenza omicida.
[…] Lo sguardo in macchina con cui Valeria Golino decide di evidenziare la caduta dello Scopo, non è che la visione bloccata a centottanta gradi delle immagini specchiate con cui ha costellato il film dall’inizio alla fine in un gioco al massacro di sguardi come vuoti a rendere. È come se, guardando diretta il vuoto dell’obbiettivo, Irene si veda davvero per la prima volta: una donna nel pieno della sua fertilità che esercita una funzione contraria rispetto a quella per cui è naturalmente congegnata, un angelo dagli occhi dolci che muove i passi verso l’estinzione e non verso una nuova nascita, bloccata in questo percorso evolutivo dalla crudeltà della vita (una madre scomparsa prematuramente, probabilmente dopo aver molto sofferto). Volendo semplificare al massimo: una donna costretta a fare i conti con la propria, di vita, al di là di qualsiasi missione.
Nonostante, è vero, il film della Golino riesca nel difficile compito di sospendere il giudizio nell’attuale dilemma sulla supposta sacralità della vita, e ne esca quasi pulito, è nello sguardo sospeso di Irene in macchina che rimangono appesi tutti i dubbi. Compreso quello, […] della necessità di un film che parla con un certo stile di un argomento così complesso, toccando alcuni nodi essenziali, suggestionando parzialmente, ma passando semplicemente attraverso.