Questa sera su Paramount Channel (canale 27) alle 21:10 Milk di Gus Van Sant, la storia di Harvey Milk politico statunitense e attivista per i diritti dei gay, assassinato nel 1978. Su Cineforum 482 si trova lo speciale con i contributi di Alberto Morsiani, Pier Maria Bocchi e Antonio Termenini (che ha curato anche l'intervista al regista). Abbiamo scelto per voi il pezzo di Bocchi, ma vi invitiamo come sempre a recuperare gli altri articoli.
Guardare indietro e guardare avanti
Data la sua forte ideologia, mi sembra lecito chiedersi a chi e a cosa serva, oggi, un film come Milk. Gus Van Sant, e la sceneggiatura non lo nasconde, va alle origini della questione.
All’occupazione comunale e alla di poco successiva morte di Harvey Milk, Stonewall era già accaduto da un pezzo, ma alla fine della fiera le cose non si erano spostate più di tanto. L’omosessualità era uscita sulle piazze, però a San Francisco non aveva trovato di meglio che confinarsi in un quartiere, Castro. Come dire, ancora in un club, soltanto con case e negozi. Paradossi queer: per vivere, e per far vedere di vivere, c’è da stare ben delimitati. Van Sant ripropone passo dopo passo le vicende già narrate dal bel documentario The Times of Harvey Milk di Robert Epstein e Richard Schmiechen. Ma fa un errore grossolano proprio ideologicamente: recupera la Storia sollevandone un problema alle fondamenta. Così facendo, cade prima di tutto nella dietrologia più fastidiosa del biopic a tesi; inoltre, ed è più grave, parte da zero. È lo stesso sbaglio che commette per esempio John Patrick Shanley con Il dubbio. Riguardare cronachisticamente il passato come se niente fosse avvenuto “nel frattempo” è indice di uno sguardo non tanto acritico (tanto non c’è niente da criticare), bensì servile. Milk, e anche questo fa parte di un carattere paradossale da cui l’omosessualità sembra non volersi affrancare, fa il gioco del padrone e segue il tragitto dell’opposizione: mette le carte in fila, parla elementare, sceglie la bandiera. È un discorso politico, quello di Van Sant, e sappiamo oggi a quanto servano e dove portino i discorsi politici. Milk, per l’appunto, è il perfetto film per le istituzioni, che siano quelle degli Oscar o quelle, più pericolose, della società e della cultura di regime (difatti non a caso da noi è stato elogiato anche da un quotidiano come Il giornale). Abbiamo già oltrepassato l’odissea nello spazio e il cinema è ancora qua a invocare la parità dei diritti dei gay (o il rischio di ogni fondamentalismo di pensiero, nel caso di Il dubbio). Questo è cinema vecchio non nello stile, ma nelle idee: se neanche l’immaginario di un film oggi è in grado di dimostrare un’acquisizione perlomeno intellettuale, il cinema e il pubblico non faranno mai grandi passi avanti.
Milk ci tiene a farci sapere che bisogna lottare contro ogni discriminazione, ma questa lotta il cinema l’ha già fatta, l’ha già messa in pratica, e ripeterla ancora una volta (seguendo peraltro un manuale per iniziati) è segno di atrofia e di incapacità a proseguire. Tutto giusto bello doveroso indiscutibile, quello che dice Milk: ma anche tutto assodato digerito capito, perfino dal potere! Se ora siamo a questo punto, è anche merito di persone come Harvey Milk; ma se ora siamo esattamente “a questo punto”, il cinema (soprattutto quando militante) farebbe bene a guardare oltre. Lasciamo che i discorsi su ciò che dovrebbe essere già certo (anzi, certissimo) vengano condotti nei salotti televisivi o nelle aule politiche: che l’arte, quella vera, possa finalmente guardare lontano! Non serve a niente adesso ripetere che è una battaglia per “noi stessi”: la battaglia è già avvenuta, i morti si sono già contati, i vincitori pure, e il cinema – almeno lui! – dovrebbe averne fatto tesoro ormai molto tempo fa. Oggi, un film come Milk ha l’effetto di una panacea, altro che grido.Vedi Milk, e ti senti in pace, perché stai guardando quanto cattivi siano i razzisti e quanto buoni e giusti siano i martiri e quanto bene essi abbiano elargito al mondo intero. Un po’ pochino, per un autore che ha fatto Gerry, che era già la parola fine (the end) un po’ di tutto e su tutto. Girate la frittata, ma Milk non è mica così diverso dai vari Gandhi o Grido di libertà.
C’è una cosa che frequentemente il cinema di oggi, in particolar modo quello “a forte tematica”, fraintende: dare per scontato non significa sempre tradire, ma a volte testimonia di un progresso (specialmente intellettuale, giustappunto). Nel dramma di John Patrick Shanley c’è una scena che non solo vale l’intero film, ma stacca violentemente dal resto, e dimostra un coraggio che tutto Il dubbio non ha mai: il dialogo tra la madre del ragazzino nero dodicenne e la suora integralista di Meryl Streep. All’ipotesi che il figlio possa essere stato concupito dal prete, la donna reagisce con straordinaria lungimiranza (per i tempi, per la condizione sociale, per la razza, per il ruolo della sua antagonista nella sequenza medesima), ammettendo con dolore ma anche con amore estremo che, se veramente è accaduto qualcosa, forse è ciò di cui il figlio stesso ha esigenza, per non sentirsi isolato, per crescere con ciò di cui ha bisogno, per scegliere nella vita ciò che veramente è necessario per lui. È una scena che guarda avanti, che scavalca gli anni Sessanta della vicenda, che sbriciola accuse e sospetti, che guadagna il futuro, che ipoteca una parola densa di comprensione sulla deflagrazione della sessualità perfino al di là del “minimo consentito”, che strappa con un paio di frasi (e non ad effetto) il tradizionalismo catto-culturale della malizia e della morbosità. E che batte, questo singolo momento in un’opera altrimenti mediocre, tutto l’apparente documentarismo progressista di Milk. Il cui motivo più d’interesse, viene da pensare, risiede nella sua esistenza mediatica così perfettamente tempestiva con l’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti: Harvey Milk come Obama, un’equazione sincera che piace. Poi a tutti questi cincischiamenti aritmetici si può perfino aggiungere Frost/Nixon (dove Ron Howard vuole copiare senza pudore il Michael Mann di Insider – Dietro la verità), se nel ruolo dell’ex presidente interventista e watergatiano si sovrappone l’altro dell’ormai altrettanto ex, e altrettanto interventista e chissà cos’altro, George W. Bush. Che l’interesse di una messe non sotto-valutabile di film contemporanei (e film, per un motivo o per un altro, sotto l’occhio delle “telecamere”) aumenti quasi esclusivamente per la sua paratestualità sociale (che non contempla automaticamente un’importanza di mercato), è abbastanza emblematico, dei tempi che viviamo e della “caratura”artistica dei film stessi. I quali,Milk compreso, forse non hanno alcuna colpa. O forse sì, qualche colpa l’hanno eccome.