Questa sera su Paramount Channel, alle 23.30, un classico del cinema americano degli anni Novanta: Philadelphia. Un modo per ripensare al cinema di Jonathan Demme e per rileggere cosa Cineforum scrisse del film e del regista, nel lontano 1993. Clicca qui acquistare il n. 333 con la recensione completa di Adriano Piccardi.
Philadelphia dà il suo contributo circoscritto ma importante alla costruzione di un’etica laica della convivenza e della tolleranza, e proprio in questo sta il suo essere vero cinema civile. Tanto di cappello, anche per l'assoluta mancanza di spocchia e di narcisismo con cui va dritto al nocciolo della questione. Andrew Beckett è vittima non solo della sua malattia ma di un sistema in cui il successo professionale deve andare di pan passo con l'omogeneità dei suoi componenti alle convenzioni dominanti: a dire il vero, l'omogeneità basta che sia più apparente che reale, di un’apparenza incontestabile e ben sostenuta da un'inappuntabile interpretazione. Un sistema in cui basta poco per passare dal successo all'emarginazione, a volte la delazione di chi forse ha le stesse paure da nascondere (il collega di Beckett che soffre l'interrogatorio di Miller ben al di là della sua responsabilità professionale: Demme ha scelto, per interpretarne il ruolo, un vero siero-positivo).
In ciò, Philadelphia rientra a pieno titolo nel novero di quei film che raccontano gli Stati Uniti come un paradiso perduto: anche qui il sogno americano non è più un punto d’arrivo, appagante e risolutivo di ogni conflitto, ma casomai il punto di partenza per una discesa agli inferi, inevitabile quanto appesa alla (finta) cecità del Caso. E anche qui qualcosa allora si muove alla ricerca di un possibile punto d'osservazione sulla faccia nascosta della Fortuna (in senso ariostesco e più rinascimentale), che Hollywood aveva quasi sempre preferito rimuovere prima della crisi coincidente con gli anni Sessanta e poi in linea di massima congelare nel limbo delle sicurezze artificiali durante il decennio passato.
La laicità diventa dunque una categoria di interpretazione del film ancora più generale, che non si sottrae al confronto con una crisi storica, culturale, antropologica, la cui portata si sta cominciando solo ora a intravvedere concreta- mente. Mentre il cinema di Jonathan Demme si candida come un prezioso compagno di viaggio, alla cui affabulazione/conversazione è sempre più difficile, passo dopo passo, rinunciare.