Stasera su Cielo, in prima serata, Point Break, il film cult degli anni Novanta con Patrick Swayze e Keanu Reeves. Ecco la recensione di Leonardo Gandini uscita su Cineforum 310 del dicembre 1991.
Aria, acqua, cielo, terra: di questi elementi è fatto Point Break. Sostanze decisamente inusuali per un poliziesco, genere urbano per eccellenza, che affonda le sue radici nei fari delle automobili, nella polvere dei vicoli, nelle finestre dei grattacieli, nelle luci al neon dei negozi – veri e propri segni-feticcio della metropoli. Qui invece le guardie e i ladri si plasmano e rigenerano, come figure wagneriane, nelle onde del mare e in quelle delle nuvole, in spazi sconfinati e immensi che richiedono gesti estremi, slanci di incoscienza, mosse che rappresentano un'iniziazione – al mare, alla natura, al «gruppo». Ma anche ad una penetrazione dello spazio urbano che ne disgrega le coordinate, ne spezza l'equilibrio con il furore claustrobofico di chi, tra il cielo e l'oceano, non è abituato a trovare barriere di fronte alla propria vitalità. Il lungo inseguimento a piedi tra Johnny Utah e Bodhi (attenzione ai nomi: il primo sembra uscito da un western di serie B, il secondo è una specie di versione orientale, zen, della parola «body», «corpo», e viene tra l'altro pronunciata allo stesso modo) è una sorta di traversata del benessere americano, tra giardini ben curati e lucide porte a vetro, cani e sale da pranzo. E in questo tipo di ambiente, in questo distillato dell'«american style of life» che irrompono, con la forza distruttrice di un ciclone, i due protagonisti. Seguiti puntualmente dalla mdp. della Bigelow, che a sua volta scardina la consuetudine a girare in modo statico i polizieschi d'azione, lasciando che l’«azione» la facciano personaggi, macchine e oggetti interni all'inquadratura. Sin dal principio, quando Utah viene introdotto nel suo nuovo ufficio di Los Angeles, la mdp si muove in modo continuo e visibile, segue le figure passo dopo passo, genera dinamismo senza limitarsi a registrarlo. Nello stesso tempo la regista, che viene da una scuola d'arte e deve essersi studiata a fondo le avanguardie di inizio secolo, sa bene che di una scena frenetica l'occhio può cogliere soltanto alcuni particolari, e che sono proprio questi particolari a dare l'idea complessiva non dell'evento, ma della velocità dell'evento. Ecco perché, nella sequenza della prima rapina in banca come in quella dell'irruzione nella casa degli spacciatori, il montaggio e le riprese mettono lo spettatore nella condizione di afferrare solo una manciata di fulmi nei dettagli – spari, urla, braccia e gambe in movimento, volti tirati, rumori, gemiti – che riescono però a restituirgli la sensazione di smarrimento e confusione che si prova in casi simili.
Qualcosa di molto diverso avviene quando l'azione si allontana dalla città. Già nella sua strabiliante opera prima, After Dark (Il buio si avvicina), la Bigelow si divertiva a ribaltare le convenzioni di un personaggio, quello del vampiro, da sempre legato a una condizione di stanzialità (il castello, la bara, ecc.). Ecco dunque una intera famiglia di vampiri on the road, che gira l’America in furgone alla ricerca di nuove vittime. Qui il paradosso non nasce soltanto dall'idea di una banda di rapinatori di banche surfisti e paracadutisti, distanti in ogni senso dalla malavita metropolitana, visto che stanno in città solo il tempo necessario a procuarsi il denaro per poter giocare con il cielo e con il mare. Alla stranezza di un delinquente dionisiaco e per niente urbano si accompagna quella di un poliziotto che – come già nel precedente film della regista, Blue Steel – non riesce a soffocare la propria attrazione per l'uomo che dovrebbe arrestare, al punto che, da un certo momento in poi, i ruoli si invertono: è il ricercato a cercare il poliziotto, a coinvolgerlo suo malgrado nelle proprie imprese. Ma tutto questo avrebbe un'importanza relativa, se ad esso non si accompagnasse un profondo e suggestivo lavoro sullo spazio. Abbiamo già parlato del dinamismo che caratterizza le sequenze ambientate in città, del ritmo vertiginoso delle scene d'azione urbana. Tra le onde del Pacifico o nei cieli della California, il film assume invece cadenze più rallentate, quasi a celebrare in modo solenne la congiunzione dei corpi con le sostanze costitutive dell’universo. Sono questi gli scenari che danno al film una marcia in più, dotanto al tempo stesso di spessore le tirate metafisiche di Bodhi, che altrimenti suonerebbero incongrue e ridicole. L'oceano e il cielo permeano il racconto, lo elevano in alcuni momenti ad un registro epico, sono in un certo senso sempre presenti, anche quando non inondano lo schermo. È per cimentarsi con la loro immensità che Bodhi e i suoi compagni rapinano banche, e a poco a poco la cosa ci appare sempre meno strana, perché – di fronte al panorama frastagliato e nervoso della città – la natura appare davvero una sorta di approdo ultimo, estremo, terminale, dal richiamo irresistibile ma fatale.