Su La7 uno di grandi film sulla Rivoluzione russa, Reds di Warren Beatty: come scrive Emanuela Martini, «Non avesse nessun altro merito, il film di Beatty avrebbe comunque quello di essere riuscito a catturare, a oltre 60 anni di distanza dai fatti, la commozione giovanile e la felicità pura». Si Cineforum 214.
Il film, la cui colonna musicale è tutt'altro che accessoria, oscilla tra due canzoni: I Dont' Want To Play in Your Yard e l'Internazionale. Senza soluzione di continuità e senza reciproca contraddittorietà, i due pezzi non si limitano a sottolineare suggestioni di stampo diverso, ma offrono una chiave interpretativa del personaggio e una chiave narrativa dell'opera: tra Greenwich Village e Mosca ci passa una vita, e, se la distanza tra le chiacchiere libertarie e Il romanticismo provocatorio del primo e la morte, il sangue, la politica vera e fatalmente compromissoria della seconda sembra incolmabile, è in realtà con lo stesso spirito che entrambi questi “luoghi ideali” vengono affrontati; lo spirito che fa andare Louise Bryant a New York come tacchino e John Reed a Pietrogrado come inviato speciale, e trasforma la prima in giornalista/conferenziera e il secondo in agitatore degli uffici di propaganda.
I due temi musicali siglano una diversa centralità dei personaggi nella prima e seconda parte del film: la prima (o, almeno 3/4 della prima) è soprattutto storia di Louise Bryant, un'educazione sentimentale ed etica (quasi mai politica in senso stretto), che trasforma l'idea di libertà da un folgorante e geniale «Vorrei vedervi senza pantaloni, signor Reed» a autovalutazione, autoconsapevolezza e accettazione dei limiti privati imposti dalla pratica cosciente della libertà. Anche se per Louise Bryant, femminilmente, il privato dominerà sempre sul pubblico/politico, impedendole di accompagnare John in URSS ad affermazione di sé, ma spingendola anche alla forsennata impresa clandestina del suo ritrovamento. La seconda parte (più o meno dall'incontro dal treno con i feriti dell'Armata Rossa) è soprattutto John Reed, un'avventura di formazione politica che trasforma l'entusiasmo avventuristico del mitico giornalismo statunitense in progressiva consapevolezza e accettazione dei limiti ideali imposti dalla pratica quotidiana della politica.
John Reed rimarrà sempre sé stesso, ma avrà anche il coraggio, In contrasto con se stesso, di affrontare fino in fondo l'attuazione del sogno rivoluzionario: «È solo l'inizio, non sta accadendo quello che pensavamo. Ma sta accadendo. Sui due, il senso diversamente amoroso dei due canti: quasi tutto, in questo film, è fatto per slancio romantico. Ma non è soltanto la musica a creare l'incidenza determinante della colonna sonora. Dalle testimonianze (fortunatamente rimaste indenni dalla deleteria pratica del doppiaggio) si leva a un tratto una voce (credo, ma non assicuro, sia John Ballato), nella quale suona nitidissima una gioia entusiasta: «La Rivoluzione! il popolo al potere! abbasso lo zar! Ero così felice! Saltavo di gioia».
Non avesse nessun altro merito, il film di Beatty avrebbe comunque quello di essere riuscito a catturare, a oltre 60 anni di distanza dai fatti, la commozione giovanile e la felicità pura che brillano in quella voce. In un attimo, la Rivoluzione è lì che sta per essere fatta e John Reed sta per buttarvisi a capofitto. Certo, pratica hollywoodiana di costruire emotivamente qualcosa che avrebbe potuto essere analizzato con ben altra razionalità storica; ma forse, per una volta, la pratica hollywoodiana è proprio la più affine, la più coincidente alla misura del personaggio che narra. E, comunque, va senz'altro riconosciuto l'ottimo professionismo con cui la narrazione vera e propria viene alternata con gli inserti dal vivo, senza che la prima sia sminuita o interrotta nel pathos, né i secondi privati del proprio valore documentario.
Elegantissimi, nel rigore molto costruito del fondo nero, questi inserti (che sono senza dubbio l'invenzione più qualificante del film) compongono essi stessi la storia, illuminando in poche parole le zone rimaste oscure, presentendone il finale inevitabile, ombre abbastanza agghiaccianti, non solo, come è ovvio, della morte, ma anche dell'immutabilità di destini, di storie private e nazionali, di scelte esistenziali. Se non fossero morti, Reed, Bryant e O'Neill sarebbero certamente tra quei volti (e, come la tenera voce citata prima potrebbe appartenere a John Reed, cosi la lucidità maligna di Henry Miller potrebbe stare in bocca a O'Neill). Ma evidentemente, come il film ci fa intendere, anche la morte a trent'anni è una scelta.