Questa sera su Cine Sony (canale 55) alle 21:00 andrà in onda Ritorno a Cold Mountain di Anthony Minghella. Pellicola del 2003 tratta dall'omonimo romanzo di Charles Frazier. Ripubblichiamo la recensione di Alessandro Bertani uscita su Cineforum 433 (acqusitabile qui).
Le odissee, mi si conceda il plurale improprio, sono contenitori generosi, che elargiscono al cantore/narratore numerose istanze per ravvivare una storia, per rendere più avvincente, densa, talora didascalica, una narrazione. Ogni sosta è un’avventura, poiché sono le soste, dopotutto, a raccontare il viaggio. E sono vieppiù gli incontri, i luoghi che si attraversano, a dare la misura del racconto. Le soste in Ritorno a Cold Mountain sono contrassegnate da episodi violenti, da rapsodie aberranti: ogni elemento intensifica il lutto, la miseria della guerra, la fame. Le disgrazie subite dai personaggi non fanno che accentuare l’angoscia, la tensione che precede l’abbraccio.
I personaggi non ne vengono arricchiti, né sciupati – come impermeabili al dolore, ai fatti – grazie a quel pensarsi amorevole all’unisono che li preserva dalle brutalità. Tutt’al più si opera un’accelerazione degli spasmi, delle contrazioni, a mano a mano che i conflitti si radicalizzano e la violenza dilaga. La figura desueta di eroe disertore, Inman, può evocare altre figure – più o meno coeve, se ci atteniamo al contesto storico-narrativo – del cinema americano: pensiamo ai soldati fuggiaschi, confinati o ribelli di Soldato blu, Balla coi lupi, L’uomo chiamato cavallo, Piccolo grande uomo, trascinati fuor dai conflitti ed ivi mantenuti da una presa di coscienza perentoria, o dall’imbarazzo che ci causa il guerreggiare contro sconosciuti. Siamo qui in un’epoca dove non c’è più scampo: ne vediamo gli effetti grandguignol nelle scene della battaglia di Petersburg – peraltro la parte figurativamente più incisiva del film. Lasciare la barbarie della guerra ha come contropartita il confinarsi in spazi ascosi, macchie, grotte, antri che offrano rifugio, tra randage, ancorché resistenti, compagnie: la vedova affranta, la solitaria allevatrice di capre, il reverendo lussurioso. L’eroe disertore è privo di quella viltà compassionevole e stoica, ammirevole in altri omologhi del passato. S’intromette in questioni altrui, spesso costretto a mischiare la mano in delitti, vendette, rese dei conti. Non si sottrae al raddrizzare torti: con la giovane vedova violentata o la schiava inguaiata dal suo pastor. Il passeggero Inman, sfiorato più volte l’abisso, non si perita d’intervenire: disgrazie maggiori di Petersburg sono difficili da prospettare.
L’immagine più esasperante è dell’eroe disteso e ferito. Quante volte lo vediamo delirare su brande, giacigli, in ospedali da campo o capanni boschivi? La condizione del delirio consente alla mente di aggrapparsi al ricordo sfocato, al rinvenimento di fatti anche veniali che, avviluppati nel sogno, risultano fatali, insindacabili. Minghella aveva costruito Il paziente inglese sulla base di questo assunto: che poi ciò gli permetta di sciorinare paesaggi su paesaggi questo è l’abuso, la lenza gettata all’audience. La degenza è un bacino proficuo di immagini che balzano alla mente, il torpore della mente è la fucina dei ricordi riaffioranti. Questa ventura di stare adagiati su una branda, e di riforgiare il passato secondo i flussi del subconscio, tra la vita e la morte, è l’idea che sostiene gli arrembaggi romantici, le coloriture sentimentali. La ferita al collo del nostro eroe talora si riapre, tanto che quasi ogni parentesi narrativa è segnata da una ferita al collo. La capra della donna dei boschi uccisa con una stilettata al collo, il collo staccato del gallo/demonio che tormenta Ada, lo strangolamento tentato a spese della povera colona Maddy, che poi ne esce afona. Il collo è canale dove scorrono cibo e parole, ostruito per affamare, zittire, soffocare. È stretto dalla fune nelle impiccagioni, mezzo tra i più frequenti per dare la morte ai condannati, ai disertori, soprattutto in quegli Stati – allora dis-Uniti – d’America.
Rimandi di forme e fisicità si perdono nel fiume degli eventi; non è così per i presagi, che rimangono e incombono, dal pozzo dove Ada conobbe il destino avendo “visto” cadere il proprio uomo nella neve, tra i corvi. Le acque scure, oleose e nere, sono le stesse su cui s’accende il racconto. Acque dense, artificiali, superfici su cui s’inscrivono gli incubi. L’odissea di Inman, malgrado il trasporto emotivo che può suscitare, è povera di verità, è povera di suggestioni, è povera di orgoglio e di vergogna. La passione, pur millantata dal battage, è imprigionata nel «Cime tempestose» leggiucchiato da Ada e Ruby, tra pianti e sofismi, sul letto orfano di uomini. Il professato epos deraglia in accademia vaticinante, nel profluvio di generici inviti a scongiurare violenze dietro amori, e morti e caduti dietro declivi incantevoli, quali finestre provvide al delirio.