Questa sera, su Rai Storia, alle 21:45 andrà in onda Sacro GRA. Documentario diretto da Gianfranco Rosi, Leone d'oro a Venezia nel 2013. Ripubblichiamo qualche estratto della recensione a firma di Valentina Alfonsi, apparsa su Cineforum 529 (acquistabile qui).
«Non produce alcuna organizzazione, non supporta nessuna struttura, esiste solo in funzione del suo inventore, delle sue entrate e delle sue uscite»: è il Grande Raccordo Anulare secondo Renato Nicolini dal cui breve saggio Una macchina celibe nasce il progetto di Sacro GRA, sorprendente – parola del presidente di giuria Bernardo Bertolucci – Leone d’Oro della settantesima Mostra di Venezia. […]
Se pensiamo al cinema del reale come un’azione cognitiva prima ancora che filmica – perché la realtà, come scrive Rosi nelle note di regia, deve innanzitutto «essere pensata» – allora può avere un senso, e certamente lo ha per Sacro GRA, accostare la pratica documentaristica alla tecnica dell’urbanista che è chiamato a costruire lo spazio abitato dagli uomini. Mentre però Bassetti è abituato a ragionare sulla perdita di identità dei luoghi, e a mettere in atto strategie di risposta, per Rosi non era necessario fornire una rinnovata “mappatura” ordinatrice del GRA: «Ho fatto il lavoro inverso, ho cercato di “de-mappizzare” e di togliere questa forte identità, per renderlo un’altra cosa, trasformarlo in qualcosa d’altro», perché «un film è la metafora di una storia che vogliamo raccontare: se non c’è metafora non c’è cinema».
Il cinema – e in particolare quello documentario – può agire sulla realtà in molti modi, (ri)organizzandola e trasformandola secondo un’ipotesi di ordine drammaturgico […] Il metodo di Rosi, preciso e molto personale, si pone all’incrocio di queste strade divergenti: rende visibili dei personaggi, inquadrandoli in un contesto quasi sempre domestico, non però come funzioni o vettori di azione ma, appunto, come metafore che rimandano a qualcos’altro. Rosi organizza il proprio materiale, raccolto nell’arco di un paio d’anni, in un insieme di micronarrazioni che però, essendo il film volutamente “privo di trama”, non vogliono tanto raccontare quanto mettere in scena dei frammenti di vita secondo dei tòpoi figurativi e quasi teatrali. Ecco allora che i personaggi sono definiti in base ai propri ruoli: il Principe e la Consorte, il Nobile e sua Figlia, il Palmologo e l’Anguillaro. Ed ecco che i luoghi sui quali i film ci conduce possiedono anch’essi una forte spinta evocativa e archetipica, che rimanda ad altro, a storie già vissute: il fiume, il castello, il cimitero, le finestre dalle quali ci si affaccia di notte. Tant’è che di fronte a Sacro GRA ci si domanda quanto ci sia di vero o comunque di spontaneo e quanto di artefatto, di provocato dalla volontà del regista.
Lo stesso Rosi non si fa problemi (e perché dovrebbe?) a spiegare come, una volta conosciuti a fondo i propri protagonisti, sia stato relativamente semplice collocarli in situazioni che in modo non troppo forzato, e quasi sempre attraverso il fluire dei dialoghi, ne avrebbero fatto emergere i tratti distintivi e più interessanti per la macchina da presa. Del resto il tentativo di studiare quanto, come, perché e con quali effetti il comportamento umano si modifichi nel momento in cui viene filmato è una questione che si pone sempre in un documentario. Ciò che a noi interessa come spettatori è comprendere che tipo di azione lo sguardo del regista esercita sulla realtà e quali conseguenze questo sguardo provoca sulla nostra maniera, non di rado abitudinaria e viziata, di percepire le cose. È una questione di estetica.
La debolezza di Sacro GRA sta nell’essere (apparentemente?) più focalizzato a modellare momenti che ispirano una superficiale simpatia piuttosto che chiedere a chi guarda una empatia reale, profonda e anche critica. […] Sembra quasi che il fine dell’azione esercitata girando il film sia il film stesso: Sacro GRA si fa causa e conseguenza e non produce mutamento nella realtà che si propone di rendere visibile. Né in concreto né nella nostra percezione. La realtà del GRA viene solo tradotta per lo schermo – e a tratti semplificata – in un campionario di situazioni molto tipizzate e di persone che diventano interpreti di un ruolo, quello che il regista ha riconosciuto in loro come il più cinematografico, brillante o toccante.
[…] il film di Rosi, infatti, favorisce la partecipazione emotiva dello spettatore a scapito di un approccio più analitico e, per usare le parole della Mangini, ne «esaurisce l’attività». L’uso che Rosi fa del linguaggio cinematografico spegnerebbe insomma la forza potenziale del cinema documentario, chiudendo il film in un disegno già dato, tracciato con abilità ma in sostanza fine a se stesso. Tanto che quelle parole usate da Nicolini per il GRA – la strada che non possiede «organizzazione» né «struttura» ed «esiste solo in funzione del suo inventore» – potrebbero descrivere con efficacia anche il percorso a vuoto, che nulla rompe e nulla svela di davvero nuovo, tracciato dal film di Gianfranco Rosi.