Questa sera su Cielo (canale 26) alle 21:15 il secondo lungometraggio del regista e video-artista Steve McQueen: Shame (con protagonista Michael Fassbender, vincitore della Coppa Volpi al 68esimo Festival di Venezia). Fabrizio Tassi scrisse un articolo su Cineforum 511 di cui riportiamo qui alcuni passaggi.
Nella prigione del corpo
Un corpo abbandonato, sfinito, coperto per metà da un lenzuolo blu sgualcito. La pelle bianca come quella di un cadavere. Occhi sbarrati che guardano il vuoto. Forse è morto. No, gli occhi si muovono. Sta tornando “alla vita”. Eccolo che si alza ed esce fuori campo. Apre una tenda. Il letto, rimasto vuoto, viene inondato (violato) da una luce bianca, fredda, una luce da obitorio. Shame. Dove sta la vergogna? [...]
Sesso compulsivo. Tutto qui? La vergogna è per la cosa in sé? Basta essere irlandesi (cattolici?) perché il sesso diventi un maledetto problema? Forse il problema è il sesso perché è lì che l’ex irlandese ha cercato la sua libertà dal passato, perché è così che ha pensato di comprarla. Comprarsi la libertà dal peccato e ritrovarsi schiacciato dal senso del peccato. Avrebbe un suo fascino, ma sarebbe un altro film. Come quell’altro ancora, che contempla torbidi passati, incesti o chissà quali violenze. Qui rimane tutto implicito. Anzi no, è tutto volutamente misterioso. [...]
E poi c’è dell’altro. Una città, New York, che sembra un’unica gigantesca superficie trasparente, in cui tutti vedono tutto, ma nulla è semplicemente come appare. Meglio: nulla semplicemente è. [...] Trasparenza (illusoria) e opacità (impermeabile). Solitudine metropolitana. Ego compulsivo. Ho l’illusione di vedere tutto e di non essere visto da nessuno. Quell’appartamento con le vetrate enormi, ma anche il locale, l’ufficio, l’hotel di lusso, tutti luoghi da cui si domina New York. Panorami senza esseri umani, in cui uomini e donne al massimo appaiono come diorami inscritti in larghe vetrate. [...]
In Irlanda, di sicuro, non funzionava così. Lo sa anche Sissy, che è arrivata a sconvolgere la gelida routine del fratello: porta passioni e sangue con cui imbratterà il suo mondo pulito. Dice: «Non siamo cattivi, veniamo solo da un brutto posto». E noi rimaniamo perplessi. Va bene l’ellissi e l’allusione, ma questa ha tutta l’aria di essere una banale scorciatoia. In realtà lei, la dolce e nevrotica sorella, aveva già detto tutto ciò che c’era da dire, cantando New York, New York come fosse un lamento. Pudore e dolore […].
Shame è soprattutto un corpo che si dibatte in una prigione. Un corpo spesso schiacciato in fondo all’inquadratura, messo in un angolo, inscritto dentro spazi, luoghi, forme geometriche da cui non riesce mai a evadere, perché quella prigione l’ha costruita lui. Il collegamento con Hunger (il film d’esordio di Steve McQueen, che racconta l’attivista nordirlandese Bobby Sands, morto dopo uno sciopero della fame) è inevitabile, ed è stato sottolineato dallo stesso regista. Là c’era un uomo che attraverso il proprio corpo, portandolo all’estremo delle sue possibilità, riesce a trovare una drammatica, ideale libertà, nonostante sia chiuso in una prigione. Qui c’è un uomo apparentemente libero che diventa schiavo del proprio corpo, che perde il controllo dei suoi istinti, che fraintende il senso della propria libertà.
Tutto troppo programmatico ed esemplare? Sì, non c’è dubbio. È il grande problema del film, e a questo punto del cinema in genere di Steve McQueen. Così come l’ossessione del controllo. Lo si intravvedeva già in Hunger, come limite e maniera, come un eccesso di confidenza nelle proprie capacità, col risultato che la bellezza, l’espressività, l’esemplarità di certe scene rischiava di diventare più importante della loro verità. […].
Eppure Shame ha delle qualità (“interiori”, non solo di superficie) che non si possono negare. Parla il linguaggio delle immagini con un’eloquenza e una densità in cui non ci si imbatte spesso di questi tempi. La tensione che genera sta tutta nello stile, è solo ed esclusivamente cinematografica. E poi non si può rimanere indifferenti di fronte a Michael Fassbender. […]
Si è molto discusso, soprattutto in rete, sul moralismo del film, fra tifosi e detrattori. Tra quelli che hanno esaltato lo «sguardo da entomologo» di McQueen, «rigoroso e limpido», e chi l’ha liquidato come «reazionario». Tra chi ha visto un’«appassionata adesione al personaggio» e chi ha sbeffeggiato l’epilogo «cripto-cattolico». […].
In conclusione: riuscirà Steve McQueen a smettere di specchiarsi nel proprio talento (chi ha avuto modo di intervistarlo ha parlato di una consapevolezza che sconfina volentieri nella presunzione)? Riuscirà a liberarsi da quel determinismo etico-estetico che rischia di togliere aria ai suoi personaggi e alle sue immagini? Intanto ha già nel carniere un buon film e mezzo. Intanto ci ha dato il meglio di Michael Fassbender. Intanto ha girato scene come quella in cui Brandon infila le cuffie e si mette a correre per le strade di New York, e noi gli corriamo accanto, mentre scivola lungo la superficie-vetrina della città, così vicina e così lontana. Palazzi, strade, negozi, luci al neon e neri profondissimi lo ingoiano e lo respingono. Lui e la città sono una cosa sola. Alla fine se ne va, fuori campo, e New York rimane lì, per un attimo, a guardarci.