Stasera su Rai 3 alle 21:15 una delle commedie di maggior successo degli ultimi anni: Smetto quando voglio di Sidney Sibilia. Abbiamo recuperato la recensione di Giampiero Frasca pubblicata su Cineforum 532 del marzo 2014.
Forse c’è speranza. Non per i ricercatori o per i docenti o per i cervelli che non trovano la giusta collocazione. Per quelli ormai non c’è più niente da fare, neanche illudendosi dopo la più sfacciata delle vetrine elettorali televisive. Forse c’è ancora speranza per il giovane cinema italiano. Non che si debba gridare al miracolo, per questo esordio di un giovane regista, Sydney Sibilia, salernitano di trentadue anni da poco compiuti, eppure, in un’aria talmente asfittica da esaltare pellicole la cui presunta vitalità dura poco più de l’espace d’un matin, Smetto quando voglio ha perlomeno il requisito della freschezza e dell’intelligenza. Che paiono meriti banali, ma se l’asticella media si abbassa eccessivamente, diventano pregi fondamentali da non sottovalutare. Si tratta dell’uovo di Colombo: utilizzare il paradosso di una situazione nostrana per rileggerla con toni comici e surreali e i ritmi appena più ariosi di una sitcom televisiva (non a caso nel cast sono presenti alcuni dei volti di Boris). Non molto di più di quello che si faceva negli anni d’oro della commedia all’italiana: analizzare le contraddizioni della nostra società (o della mentalità) e riderci sopra mantenendo un retrogusto amaro che facesse emergere la riflessione critica. La differenza è che il retrogusto amaro, in questo caso drammatico, è già tutto della situazione (l’estrema precarietà e la perdita del posto di lavoro costringono un gruppo di cervelli-che-non-vogliono-andare-in-fuga a diventare un’efficiente banda di spacciatori di una smart drug non ancora fuorilegge) e la riflessione critica non affiora perché sedata a colpi di comicità spiazzante e circostanze grottesche.
Smetto quando voglio si muove in territori noti, partendo dall’eventualità preliminare alla Breaking Bad, vivificando sul contrasto tra indole e circostanza derivato dalla serie tv The Big Bang Theory (come affermato dallo stesso regista nelle interviste rilasciate all’indomani dell’uscita del film) e rifacendosi alla disperazione di quella miseria bonaria che aveva caratterizzato titoli antologici come I soliti ignoti e La banda degli onesti. Su questo terreno, Sibilia, Valerio Attanasio e Andrea Garello costruiscono una sceneggiatura dai risvolti stranianti, in cui i dialoghi affettati e il linguaggio aulico e ricercato confliggono con una realtà impropria, generando uno scarto decisivo tra individuo e contesto, tra altezza di un’aspirazione mortificata e grettezza di una contingenza nella quale appare necessario inserirsi per sopravvivere con dignità.
Benzinai notturni litigano in latino e si giustificano di fronte all’aggressività del loro datore di lavoro in cingalese «perché se sai il sanscrito ti puoi tirare giù tranquillamente tutto il ceppo», una gang di rapinatori mascherati irrompe in una farmacia notturna armata di pistole napoleoniche ad avancarica trafugate dagli Archivi di Stato: sono tutti momenti comici che funzionano grazie allo scollamento grottesco tra particolare e generale, in un capovolgimento dei cliché che tramuta l’attesa che l’episodio divertente si compia in rivelazione della sua esatta antitesi. Il lavoro di Sibilia, oltre che sulla brillantezza dei dialoghi e sulle cadenze occhieggianti alla televisione, è attivo anche nella creazione di un universo estetico altro, acido, grazie alla fotografia ipersatura di Vladan Radovic, vicina alla creazione di un effetto Lomo in cui i cromatismi rossi e verdi creano un’atmosfera livida, altrettanto alterata all’interno di un mondo uscito inevitabilmente dai cardini.