Questa notte, su Iris, alle 4:00 andrà in onda Somewhere. Leone d'oro nel 2010, scritto e diretto da Sofia Coppola. Ripubblichiamo alcuni estratti del pezzo scritto da Luca Malavasi su Cineforum 497 (acquistabile qui), dove dedicammo al film un intero speciale.
[…] nessuna ideologia o intenzione polemica nello sguardo sul cinema e dintorni mediali: Sofia Coppola usa l’industria americana del cinema come esempio “qualunque”, utile come tanti altri a mettere a fuoco le logiche più o meno perverse di un “sistema” – un sistema qualsiasi – fortemente codificato, restrittivo, routinario. Le serve insomma, come già nei film precedenti, un reagente capitalistico, postmodernissimo e tendenzialmente disumano: in Il giardino delle vergini suicide (1999) erano la famiglia e il teen time, in Lost in Translation – L’amore tradotto (2003) un albergo, una città e una lingua straniere, in Marie Antoinette una corte (ancora una volta straniera). Perché anche se cambiano scene, volti e situazioni, il cinema della Coppola torna sempre lì: allo stato d’animo dei personaggi dentro uno stato di cose che li imprigiona o include insensibilmente o annette forzatamente o attira pericolosamente. Un attrito che è poi l’essenza stessa della “poesia”americana, al cinema come in letteratura, ieri come oggi. E a tornare, nella sua piccola ma compattissima filmografia, è anche – e di conseguenza – una sensibilità spiccata per giovani e giovanissimi, colti in fase di passaggio e cambiamento.
Somewhere – gemello di Lost in Translation, così come Marie Antoinette lo era di Il giardino delle vergini suicide – non fa eccezione, benché Johnny Marco non sia più un ragazzino. Ma a guardarlo e ad ascoltarlo, e a immaginare cosa pensa durante le infinite soggettive su cui è costruito il film, sembra di vedere un parente stretto di Holden Caulfield o di qualche angelo caduto dalla penna di John Cheever. Lo scontro o il mancato incontro o la semplice insofferenza del personaggio per il fatto di dover essere se stesso, in quel momento, in quel luogo, tra quella gente dribblano sempre – per insufficienza di grandezza, da una parte e dall’altra – il dramma, e cambiano, a poco a poco, senza spargimenti di sangue. Quello di Johnny è insomma un coming of age bello e buono, anche se sul suo volto c’è già qualche ruga e alle sue spalle un matrimonio (e “somewhere” pure una figlia), e la sua storia non va dunque confusa con l’ennesima crisi da uomo vicino ai quaranta (né, tantomeno, con l’ennesimo ritratto di star in crisi). Alla Coppola piacciono le adolescenze (comprese quelle tardive); le interessano le fioriture, le primavere, le maturazioni; scrive personaggi in deficit, e poi li accompagna verso qualche conquista, foss’anche la morte o l’addio. O, come in questo caso,“da qualche parte” che non somiglia ancora a un traguardo ma possiede almeno le promesse di una pagina bianca e vuota, richiamata dal deserto in cui inizia e finisce il film.
L’incompiutezza e il dramma leggero diventano quindi i toni dominanti del film (con inevitabili ma controllate fughe nella farsa), anche strutturalmente. La Coppola lascia perdere regola dei tre atti e climax, agnizioni e scioglimenti, e riempie il film di vuoto, incertezza, frammenti e fragilità. Sceglie una strada lirica, modulata su variazioni minime, piccoli salti, intervalli. È tutta addosso al personaggio, e gli si consegna. Ne deriva un film di sguardi e poche parole (come nello straordinario campo-controcampo tra Johnny e la figlia che pattina), di poche azioni e movimenti meccanici. Da quest’ultimo punto di vista, Johnny appare infatti come un corpo perennemente (tra)spostato o mosso da altri e altro, dotato di una vitalità minima – se non un morto che cammina, un mezzo vivo che si trascina (proprio lui, poi, star dell’action movie: una specie di contrappasso): su una macchina, un aereo, un taxi, un elicottero, perfino da un materassino in piscina (con significativa uscita dall’inquadratura). […] Il momento di maggior dinamismo del protagonista si realizza, non a caso, nello spazio virtuale dei videogiochi. E con la figlia, inevitabilmente, ha un rapporto da pari, o da giovane innamorato, tenero e inesperto. E non sarà per lei che deciderà, alla fine, di scendere dalla macchina in mezzo al deserto (questo è un altro film che una come la Coppola non farebbe mai), e provare a cambiare direzione. Semmai, proprio perché in posizione paritaria, scopre qualcosa di sé attraverso la relazione con la figlia, che ride, piange, corre, nuota, cucina e insomma vive, anziché trascinarsi indifferentemente.
[…] Il lirismo del film è da verso libero, e da associazioni aleatorie; da ritorno all’essenziale (camera fissa, campi e controcampi). Somewhere possiede la leggerezza e il dramma (di significato) di un haiku, in cui tre versi apparentemente irrelati fanno un intero da trovare. Da qualche parte, tra le parole e i gesti, nell’improvvisa costruzione di un’immagine solo suggerita, nell’accensione fuggevole di un lampo di senso. E proprio come un haiku, l’esperienza di Johnny si offre allo spettatore senza limiti in termini di associazioni o attribuzione di responsabilità: nessun freno, insomma, al gioco della metafora, del simbolo e dell’evocazione (cosa rappresenta Johnny?); nessun appiattimento sociologico, nessun carico di verosimiglianza, nessuna intenzione realistica (quanto vale?). Somewhere è un elogio dell’imperfezione e dell’insicurezza, del vuoto che lascia spazio e dell’immagine contro il determinismo di un senso. E’ semplicemente un film libero.