Questa sera alle 21:20 su Raidue, in prima visione (in chiaro), Suburra di Stefano Sollima, uno dei film italiani di maggior successo degli ultimi anni. Abbiamo ripescato la recensione che Pier Maria Bocchi scrisse ai tempi dell'uscita in sala esattamente due anni fa...
Una cinefilia “semplice” indurrebbe a ragionare e a giudicare sulla base della memoria affettiva e della più o meno efficace corrispondenza di Suburra a una gloria trascorsa. Per cui, nella somma disordinata dei valori, conterebbero prima di tutto il peso anagrafico del regista e la sua eredità(figlio, Stefano Sollima, di cotanto padre, Sergio, fra i prestigiosi rappresentanti del cinema italiano di genere che fu), il carattere “pertinente” del film a una tradizione culturale-industriale nostrana che oggi, sebbene non dimenticata, è impraticabile, l’appartenenza evidente del prodotto a un genere – il noir – che in Italia non si riesce più a fare, o almeno non più con polso e coraggio decisi, un’appartenenza, quindi, sillogistica e di per sé degna di lode.
Ma invece di autorializzare, invece di entusiasmarsi per il ritrovamento miracoloso di un immaginario, potremmo cercare di capire perché Suburrameriti tutto sommato di essere difeso. Al di là del suo massimalismo apocalittico francamente risibile, al di là di alcune scelte estetiche sempre a un passo dal triviale. In fondo, e abbastanza banalmente, è un problema di sistema. Perché Suburra non è soltanto un “filmone” in grado finalmente di aprire gli orizzonti di un cinema italiano industriale e de-autoriale perennemente confinato, costretto, imbrigliato, talvolta imbavagliato, spesso impagliato (per favore non riappelliamoci ai Sorrentino e ai Garrone di turno, il discorso è un altro e diverso); Suburra è anche una prova di “lavorazione collettiva” che recupera l’idea di un cinema di bottega, poco importa se con tanto denaro o con poco, o se oggi la bottega ha le fattezze di un casermone imprenditoriale. Questo è un film in cui si sentono e si vedono le “maestranze” coinvolte, in cui i singoli elementi pesano forse più del risultato, benché quest’ultimo, in guisa di “morale”, sia tutt’altro che trascurabile.
Stefano Sollima trova ciò che in ACAB – All Cops Are Bastards perdeva per strada, la forza di un racconto che procede compattandosi e stringendo, riuscendo a far convergere molte strade e molti personaggi in un imbuto narrativo vestito coi vestiti dell’epica – e qui sì che potremmo entusiasmarci, data la sua rarità. Nei momenti migliori (ad esempio il finale), Suburrariscopre la spregiudicatezza maestosa e contemporaneamente intimistica del genere (ed è un gran colpo la scelta delle musiche edite dei francesi M83: ragioni di co-produzione, probabilmente, ma un gran colpo comunque), senza per giunta risolvere niente nella maniera più facile o scontata, ma anzi dando rilievo ai personaggi più secondari (merito del copione di Rulli, Petraglia, De Cataldo e Bonini, senza dubbio).
Inoltre, è vincente la rappresentazione di una malavita zingara in ansia d’espansione: ogni riferimento a fatti o a persone realmente esistenti non è forse puramente casuale, ma le scene casalinghe che la vedono protagonista, con un chiasso insopportabile che sta fra Tony Montana e Barbara D’Urso, sono fra le più azzeccate e irresistibili del cinema italiano recente. E poi c’è un cattivo fra i cattivi, burattinaio stretto suo malgrado da una corsa all’edilizia inarrestabile e ipercorrotta, che non si dimentica facilmente, e che credo debba finire dritto fra i più memorabili villain del cinema italiano: l’Er samurai di Claudio Amendola (bravissimo, non ci sono storie, come peraltro Germano) ha la vera statura di un potente destinato al tramonto, lo spessore nerissimo di un uomo troppo rispettato per non scontrarsi con la realtà delle cose; la scena con la mamma e la torta che lui le porta vale da sola tutto il Johnny Depp di Black Mass – L’ultimo gangster, giusto per dire.
E quindi? Quindi Suburra mi pare un film in cui per una volta non si fa torto a nessuno – né allo spettatore, né al film stesso, né alla “critica” – se lo si guarda nei suoi pezzi messi assieme, nei suoi passi, le sue percentuali. Poi tutto coincide con un'idea di mondo in cui l’abusivismo tocca essenzialmente il panorama visivo, oltre alla (sua) Storia: banale fin che vogliamo, magari elementare, ma non marginale, e neanche nullo.