Questa sera, su Paramount Channel, alle ore 21:10 andrà in onda The Truman Show. Film del 1998, diretto da Peter Weir e sceneggiato da Andrew Niccol. Attraverso l'articolo, che Franco La Polla scrisse su Cineforum 377 (acquistabile qui), possiamo delineare alcune riflessioni sulla paura, sullo spettacolo e sulla vertià. Ne riproponiamo alcuni estratti di seguito.
[…] Nel film di Peter Weir (che però, come dirò oltre, mi sembra appartenere più al suo sceneggiatore, Andrew Niccol) il modello è completamente rovesciato: l'unica persona vera (Truman, come dice il nome stesso) è quella falsa, mentre tutto il resto esiste e funziona in relazione a lui e alla sua verità. In certo senso, e appunto al contrario che nella pellicola di Allen, siamo noi ad entrare nel film (o telefilm) in una colossale operazione ironica (in senso fryeano) nella quale tutti - ma proprio tutti: così gli spettatori come gli altri personaggi-attori della storia - godono di una posizione di superiorità rispetto al protagonista.
Ma non è tanto la possibile classificazione di Truman nella teoria delle funzioni narrative che qui interessa, quanto il valore che egli assume in relazione alla cultura che l'ha prodotto. La moglie Meryl lo dice in modo abbastanza chiaro all'inizio della pellicola: non c'è differenza fra vita pubblica e privata, vale a dire che è nell'antologia dello spettacolo contemporaneo - e di quello televisivo in particolare - confondere le due sfere. Ma Meryl dice molto di più, aggiungendo: «La vita è quasi sacra».
[…] un'ulteriore e fondamentale differenza segna il “Truman Show” da qualunque altro tipo di spettacolo: mentre in tutti gli altri ciò che avviene sullo schermo (o sulla scena) è frutto di un soggetto e di una sceneggiatura, qui lo spettacolo è concepito come verità, dal momento che esso non è interpretato da un attore, ma da un essere come noi, del tutto ignaro di essere al centro di uno show. Come dice Christof, il regista-demiurgo (altro nome non casuale, come del resto, e per ovvie ragioni, il cognome del protagonista: Burbank), non si tratta di qualcosa di finto, ma di “controllato”. In altre parole, il pubblico in questo caso non identifica più la sacralità nell'iterazione (i grandi miti greci ogni volta reinscenati e ben noti al pubblico che pure li seguiva trepidante, il sacrificio di Cristo che ogni volta si riattualizza nella messa, ecc.): come si diceva, non solo non c'è più sacralità, ma nemmeno iterazione, dal momento che ciò che capita a Truman non gode di un copione ma si identifica nella vita "vera".
[…] il film di Weir ha molte carte in regola per essere annoverato come ottimo esempio di fantascienza, alla stessa stregua di una pellicola come Operazione diabolica (1966) di John Frankenheimer, nella quale l'insoddisfacente vita "vera" del protagonista viene sostituita da un'altra espressamente messa a punto per lui. Ma sono ovviamente le implicazioni esistenziali, morali, psicologiche e sociologiche di questi modelli a rivestire il maggior interesse critico.
Da un lato infatti il film è un paradossale commento allo scorporo che la televisione, e più largamente la spettacolarizzazione del reale ad essa in gran parte dovuta, ha fatto della nostra vita. Paradossale tuttavia fino a un certo punto, dal momento che, ad esempio, i surrettizi momenti commerciali (le sponsorizzazioni) che la struttura narrativa mette in scena vengono smascherati come tali solo in un secondo momento della storia, laddove inizialmente essi vi si integrano in una maniera che sfiora la credibilità: come a dire, ormai le parentesi pubblicitarie sono sulla via di non esser più tali e di potere essere considerate (e vissute) come parte integrante delle nostre vite.
Dall'altro il film riprende la Grande Paura Paranoica che erroneamente avevamo identificato in un preciso, specifico momento storico - gli anni '50 - e che invece è insieme una costante e uno stile della società e della cultura americana, come ha ben dimostrato molti anni fa, soprattutto in ambito politico, Richard Hofstadter nel suo «The Paranoici Style in American Politics», cosa che del resto si riscontra molto chiaramente, per fare un esempio, in film appartenenti alle più diverse epoche: dal classico e per molto tempo paradigmatico L'invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel al citato Operazione diabolica. The Truman Show ha momenti - invero fra i suoi più belli - del tutto in linea con quelli delle altre pellicole: quando Truman, in mezzo alla strada, ha per la prima volta sentore che qualcosa di strano sta accadendo intorno a lui e che tutto, ma proprio tutto, nella sua vita potrebbe essere diverso da come appare, egli non è lontano da Rock Hudson nel film di Frankenheimer nel momento in cui il personaggio incomincia a guardare ogni persona del suo ambiente con sospetto. E quando l’intera Seahaven percorre le strade notturne in pattuglie organizzate secondo file quasi militari in cerca del fuggiasco è impossibile non riportare la mente all'inseguimento di Kevin McCarthy nel film di Siegel.
The Truman Show diviene così un film perfettamente paranoico: non solo perché una persona si trova contro tutto il resto de luogo a lui familiare, ma anche e soprattutto perché quella persona si scopre diversa dagli altri nella sostanza stessa della sua vita come individuo, perché egli non appartiene antologicamente al mondo degli altri. Chi sono io? Chi sei tu?, domanda Truman a Christof, e l’interrogazione suona come la questione definitiva di chiunque voglia saperne di più sul proprio essere al mondo. Sono le domande di un filosofo, di un paradigmatico personaggio biblico, di un rabbino, di un ministro del culto, di qualunque essere umano che non limiti la sua vita alla brutalità animale. Ma sono anche le domande pirandelliane di una creatura che, pur non essendo della fantasia come innumerevoli creazioni letterarie, è pur sempre una creazione […]