Questa sera su Tv8 (canale HD 508) alle 21:20 World Invasion di Jonathan Liebesman, combat movie del 2011 con un Aaron Eckhart in versione veterano di guerra che si trova ad affrontare un'invasione aliena. Vi riproponiamo la scheda che Pasquale Cicchetti scrisse per Cineforum 504.
Quasi verrebbe voglia di prenderlo sul serio, questo World Invasion. A volerne ignorare l’ethos para-fascista e la disarmante povertà narrativa, dopo tutto, il lavoro di Jonathan Liebersman e Chris Bertolini lascia intravedere qualcosa di interessante. La trama è di quelle che non si perdono in preamboli. Gli alieni invadono la Terra. Gli americani mandano i marines. Lo scopo dell’invasione – le nostre risorse naturali, e l’acqua in particolare – resta volutamente in secondo piano: quello che conta è lo scontro. Da questo punto di vista, in effetti, il titolo dice tutto. La recente voga dell’invasione aliena – da District 9 (Blomkamp, 2009) ai recentissimi Skyline (G. e C. Strause, 2011) e Monsters (G. Edwards, 2010) – si gioca su un orizzonte che con la paranoia sociale dei suoi capostipiti cinquanteschi ha poco o nulla a che spartire. Questa fantascienza – se ancora ha senso usare questo termine – punta piuttosto a metabolizzare pulsioni che le forme chiuse del racconto cinematografico americano fanno fatica a contenere. Visto in questa luce, il film di Liebesman appare come l’ennesima convulsione di un genere classico – il combat movie – le cui coordinate visuali ed etiche sono sempre più inadeguate agli scenari del conflitto contemporaneo. Di fronte allo stallo, il film di guerra si frammenta e dissemina i suoi tratti caratteristici attraverso il medium. È così che sotto l’intelaiatura del film fantastico ritroviamo elementi dell’immaginario bellico più tradizionale. Il manipolo dei protagonisti, per esempio, ricalca tutti gli stilemi del caso: l’ufficiale imbelle e di buon cuore, il capo (Aaron Eckhart) che vorrebbe essere altrove, il membro della squadra che cova rancori personali, quello che deve fare i conti con i propri nervi. Un campionario canonico, i cui codici furono isolati e descritti da Jeanine Basinger già nel 1986 (in «The World War II Combat Film: Anatomy of a Genre», Columbia University Press, New York 1986). A questi elementi di genere si affiancano, tuttavia, istanze più problematiche. La trovata dell’invasione in California rimuove dalla scena l’ingombrante orizzonte mediorientale, ma la matrice ideologica del film emerge a ogni passo. A partire dagli elementi di base della trama: il plotone protagonista, per esempio, non è direttamente impegnato al fronte. La sua missione è recuperare dei civili, rimasti intrappolati nel quartiere losangelino che l’aviazione si appresta a bombardare. Siamo di fronte al vecchio principio della rescue tale, la corsa al salvataggio che giustifica la violenza e tanta parte gioca nella cultura americana. Bertolini, poi, dimostrando un’invidiabile sprezzo del kitsch, ci mette dentro anche il ragazzino messicano rimasto orfano: vedi mai che a qualcuno fosse sfuggito da che parte stanno i buoni. Una volta messe le cose in chiaro, la regia non si fa più scrupoli: lo scontro con gli alieni recupera tutti i topoi visivi delle nuove guerre americane. I nostri avanzano lungo strade strette e ingombre di fumo, superando carcasse di automobili mentre spiano nervosamente i tetti, dove un nemico invisibile sta in agguato, pronto all’imboscata. Le sequenze a fuoco vero e proprio sono pura guerriglia urbana, ripresa con gli stilemi del realismo pseudodocumentario: camera a mano, inquadrature sporche, montaggio ipercinetico. Liebesman stesso dichiara di essersi ispirato ai video dei soldati americani impegnati a Fallujah. Laddove in un film come Skyline l’invasione è un evento mediale, di fronte al quale i protagonisti – come gli spettatori – restano impotenti davanti allo schermo, World Invasion sceglie la strada più semplice e punta sul coinvolgimento immersivo. Come dire: c’è chi crede ancora che per salvare la faccia basti rincorrere una spettacolarità muscolare, à la Salvate il soldato Ryan (Spielberg, 1998). Non è nemmeno un caso che qui la fotografia scarti l’opzione digitale, restando fedele a un modello di “realismo” ideologico prima che visuale. Solo che, ormai, mostrare i muscoli non basta più, e perfino Liebesman si rende conto che oggi, per raccontare certe storie senza arrossire, è meglio mettere gli alieni al posto del nemico.