Questa sera su Paramount Channel alle ore 21:10 andrà in onda Zodiac di David Fincher. La pellicola è basata sui libri che Robert Graysmith (qui interpretato da Jake Gyllenhaal) dedicò al serial killer statunitense denominato Killer dello Zodiaco. Nel numero 466 di Cineforum (acquistabile qui), Luca Malavasi ne scrisse una recensione. Ripubblichiamo di seguito alcuni estratti.
Ci sono almeno due film in Zodiac o, meglio, due diverse declinazioni del poliziesco, normalmente dotate di vita propria: da un lato, il poliziesco classico, con i tutori della legge che affrontano e magari risolvono un caso, riaffermando la vittoria del bene sul male e riallineando la morale più o meno confusa del pubblico; dall’altro lato, il poliziesco dei lonesome cop (ma talvolta si tratta di civili che si armano e si fanno giustizia da sé), lievitato negli anni Settanta da un milieu sociologicamente complesso, e che rappresenta un po’ il “resto” del precedente, centrifugo anziché centripeto, individualista anziché collettivo, fondamentalmente immorale anziché “civile” (perché non si dovrebbe cercare giustizia al di fuori della legge e non ci si dovrebbe fare giustizia da soli).
Prima uno e poi l’altro, come se Fincher testasse un passaggio di consegne (anche) cinematografico: usciti di scena, in modo fallimentare, le logiche, i metodi e le regole dell’ufficialità, entra in campo l’investigatore solitario e improvvisato, che parte da dove hanno abbandonato gli altri per provare a risolvere il caso, e che qui ha la faccia dolce e i modi impacciati (ma la mente arguta) di Jake Gyllenhall. Che però fallisce per la seconda volta. Perché il serial killer di Zodiac, e con lui la sua storia, è in qualche modo “fuori genere” o, come dicono i poliziotti, “fuori schema” […] Niente a che fare, insomma, con i Lecter di ieri o i Jigsaw di oggi, tanto sofisticati e perfidamente guidati da un progetto che li eccede, dotandoli di uno spessore anche “filosofico”, se non proprio (im)morale. Il serial killer di Zodiac (ma forse neppure un serial killer, forse semplicemente un assassino, un cacciatore come tanti altri nel decennio della guerra in Vietnam) è scialbo e soprattutto umano, troppo umano; l’unico indiziato è un cinquantenne goffo, proletario, timido. Ogni tanto sbaglia, imbroglia, “ruba” gli omicidi altrui, e si dimostra meno intelligente, ma più fortunato, di chi cerca di incastrarlo. E in un certo senso fa fallire il film.
[…] Niente eroi in Zodiac, niente personalità brillanti, complesse, interessanti, niente omicidi “affascinanti” o soluzioni inattese: tutto virato verso il vero, contro le lusinghe della finzione e la trappola della bella storia, che anche il pettegolezzo, se ci si mette, può arrivare a costruire. Fincher fa atto di rinuncia, e sembra un po’ una questione morale (e quindi stilistica). E finisce per prelevare dalla storia, quella vera dello Zodiaco, anche tutto quello che non fa Hollywood o cinema. Anzi, sembra quasi approfittare delle debolezze del suo cattivo per un giro fuori pista, concentrandosi sulle personalità dei quattro protagonisti maschili, entrando nelle loro vite, perlustrando i loro ambienti, sconfinando, senza esagerare, nel privato. Anche se poi Fincher non è Dürrenmatt, e le promesse (fatte ai cittadini, al distintivo, a se stessi) non si trasformano mai in uno studio di psicologia o in un dramma dell’attesa.
[…] il film di Fincher, che chiude sul niente di fatto, anche se, virtualmente, potrebbe andare avanti all’infinito, deviando o allargandosi ancora, come ha già fatto diverse volte prima di arrivare a conquistare qualcosa di simile a una chiusura. Finisce riaffermando il fallimento della giustizia e, al tempo stesso, il trionfo della banalità del male incarnata da Arthur Leigh Allen, che forse è pedofilo, forse ritardato, forse, anche, un assassino seriale. Fincher si limita a guardarlo attraverso gli occhi di uno spettatore dentro un film con poca azione, e senza una vera soluzione.
[…] Zodiac non è il film dell’orrore ma dell’errore umano; delle imperfezioni burocratiche, intellettuali, procedurali; fatalista e fenomenologico, non si trasforma neppure in un atto d’accusa nei confronti del “sistema” che ha fallito. Prende atto e s’inabissa nelle profondità delle crepe che separano e allontanano la domanda dalla risposta, le azioni dalla loro soluzione. Fincher, di conseguenza, rispetto ai precedenti abbassa i toni – narrativi, registici, passionali – e non s’inventa soluzioni facili, preferendo le dinamiche poco seducenti della cronaca.