Buon compleanno, Mr. Altman

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Nel centenario della nascita di Robert Altman, pubblichiamo un  estratto dell'articolo scritto da Emanuela Martini, che sarà pubblicato interamente sul prossimo n. 17 di Cineforum

 

Se alcune delle parole chiave del cinema altmaniano potrebbero essere mobile, rifrangente, vagante, instabile, e certamente quella fondamentale è la definizione coniata nel 1972 da Robert Benayoun su Positif, “le chaos fertile”, talmente calzante da essere poi ripresa da tutti gli studiosi contemporanei e successivi, non c’è dubbio che la più diffusa e ovvia sia “corale”: Altman come maestro (se non inventore) del “cinema corale”, quello dove il centro è costantemente occupato da personaggi, oggetti, elementi diversi. Ovvio ma tutt’altro che banale: soprattutto, tutt’altro che facile fare un film con venticinque personaggi più o meno tutti paritetici, che per cinque giorni non fanno altro che aggirarsi in una città che vive di e per la musica (intesa sia come espressione artistica che come industria discografica e comunicazione popolare), a volte incontrarsi e soprattutto andare a cantare da qualche parte, locale notturno, corsa automobilistica, chiesa, palco. Questo era Nashville (1975), considerato da alcuni (parecchi) il film più importante della New Hollywood, certamente quello definitivo, nel 1975, insieme allo Squalo di Spielberg, il film che segna uno spartiacque.

Se Lo squalo è il film della conclamata paranoia, Nashville fu definito da alcuni critici americani  la rappresentazione di un paese che tenta di riprendersi da un esaurimento nervoso. Dalla guerra del Vietnam, dagli scossoni della controcultura, da tanti assassinii politici, dai sospetti/certezze di complotti politici, dalle dimissioni di un Presidente (Nixon) sull’orlo dell’impeachment. (...) uno straordinario, anomalo “musical” di 160 minuti, nei quali si aggira il “popolo” americano svuotato del Mito, arringato dalle parole di un candidato presidenziale  populista senza volto (sul quale oggi ci sarebbe parecchio da riflettere), ma ancora in qualche maniera cementato, come ha scritto Franco La Polla, dalla musica, mentre vent’anni dopo, in America oggi, non ci sarà più nemmeno quel cemento.

Film enigmatico, Nashville (che è considerato uno dei più grandi film americani di tutti i tempi) era tanto vitale, caleidoscopico e arguto da arrivare, imprevedibilmente, anche al grande pubblico. Fu un successo al botteghino e questo consentì ad Altman il credito necessario per altri progetti complessi come Buffalo Bill e gli indiani e Un matrimonio (50 personaggi principali, in una grande villa, nelle ore successive a una cerimonia nuziale). Gli attori e i direttori della fotografia lo adoravano, per il suo gusto dell’improvvisazione e il senso di libertà che trasmetteva alla sua “famiglia” artistica; meno gli sceneggiatori e, soprattutto, i produttori. Dei grandi maestri americani emersi negli anni 70, Robert Altman è quello che ha avuto meno “eredi”: troppo difficile, forse, imitarlo senza correre il rischio di banalizzarlo, semplificarlo o, al contrario, intellettualizzarlo troppo. A parte Alan Rudolph, aiutoregista di Il lungo addio e Nashville, del quale Altman è stato produttore, e Paul Thomas Anderson, “sintomi” e segni del suo cinema sono forse rintracciabili nel lavoro di Alejandro González Iñárritu e di Richard Linklater, un autore che, come lui, ha l’impareggiabile dono della leggerezza.