Mektoub, my love: Canto Due di Abdellatif Kechiche

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“Passa, uccello, passa, e insegnami a passare” è la frase di Fernando Pessoa messa in esergo a Mektoub, my love: Canto Due. E in effetti è la transitorietà (e quindi forse un certo senso della fine, e perchè no?, anche della morte) il mood che caratterizza questo film, laddove Canto Uno si apriva con un versetto del Vangelo di Giovanni e uno del Corano che celebravano Dio come luce del mondo e come fonte della vita.

In Intermezzo avevamo lasciato Ophélie incinta di Tony ma nello stesso tempo promessa sposa di Clément; mentre Amin aveva iniziato una relazione con Charlotte, in una sorta di unione delle due figure che al termine del primo film erano rimaste ai margini della comunità gioiosa e piena di vita di Sète. Ma già da quando in Intermezzo Amin aveva iniziato a fare le foto di nudo a Charlotte (mentre noi sapevamo che il suo vero desiderio era quello di guardare Ophélie) forse qualcosa si era incrinato. E in effetti questo film si apre con la crisi della relazione di Amin, in una sequenza che è una sorta di distillato dell’efficacia e dell’economicità del cinema di Kechiche: lei che gli parla di un libro che ha appena letto (forse Le Tour du malheur di Joseph Kessel?) mentre Amin la fotografa senza ascoltarla. Lei che vive nella parola, lui nell’immagine. Non c’è mediazione tra queste due modalità di vivere il desiderio, perché il desiderio nel cinema di Kechiche attraversa sia il tempo dell’unione che quello della separazione (e in effetti poco dopo Charlotte se ne andrà lasciando ad Amin solo delle parole). Ma se ne La Vie d'Adèle i due momenti si susseguivano uno dopo l’altro nello stesso film, qui i due capitoli sono uno il contro-canto dell’altro (con l’intermezzo a fare da trait d’union libidinale): e la vitalità esplosiva ed accecante, erotica e desiderante, del primo capitolo lascia spazio questa volta a un’ atmosfera cupa e disincantata.

Dal punto di vista dell’ordine cronologico degli eventi sono passate solo poche settimane da Canto Uno, perché siamo solo a settembre del 1994. Eppure è da notare il paradosso temporale di questo film che viene girato nel 2018 due anni dopo il primo (e lo si vede dal fatto che alcuni attori sono leggermente invecchiati) ma che noi vediamo otto anni dopo (e gli attori nel q&a a Locarno avevano quasi 10 anni in più rispetto alle immagini del primo film). Da un lato quell’estate di Sète è come se fosse stata elevata a un livello quasi metafisico, perché quello che conta non è la verosimiglianza – la mdp di Kechiche non ha mai guardato degli eventi empirici, quanto espresso un desiderio: è quello che letteralmente non gli è mai stato perdonato – ma la dimensione ideale di questi eventi. Eppure, questa distanza “spacca” l’immagine: quelle poche settimane che sono passate (ma che avevamo visto per la prima volta nel 2017) pesano effettivamente come tutti questi anni. Non soltanto perché il tempo si inscrive sul corpo degli attori (come anche degli spettatori), ma perché in questo film il tempo è davvero una delle questioni fondamentali del desiderio così come dell’immagine. Se la luce abbagliante che aveva contraddistinto il primo film tendeva a fermare ed elevare nell’eternità – la luce acceca, fa perdere i contorni, rende le forme opache e fa sembrare che quello che guardiamo e quello che siamo siano la stessa cosa – ora in Canto Due l’oscurità tende invece a far emergere le distanze tra noi e gli altri, le rughe, il tempo che passa. Ma anche il peso delle scelte, i rimpianti, l’impossibilità di cambiare.

A partire dai due personaggi attorno ai quali ruota la vicenda del film: un produttore americano e un’attrice di soap-opera in crisi che conoscono Amin e che si propongono di produrgli il film di cui lui aveva scritto una sceneggiatura. Questi due “intrusi”, che si comportano come degli americani in vacanza e che fanno un po’ i gradassi imponendo alla madre di Tony di tenere aperto il ristorante per poter mangiare couscous a tarda notte, rappresentano la degradazione dello sguardo puro e desiderante di Amin.

Amin voleva fotografare la vita nel primo film anche a costo di non viverla, secondo il modello della scena della nascita dell’agnellino. Lo sguardo invece qui è già diventato “spettacolo” per via di quella degradazione capitalistica incarnata dal produttore americano. Ma tutto nel film è intriso di morte e di disincanto. Ophélie, da oggetto del desiderio di tutti i maschi della comunità – di Tony, del suo promesso sposo Clément, di Amin stesso – in questo film ha lo sguardo più spento, ha deciso di abortire il figlio di Tony, di sposare un uomo che non ama (anche se poi nei discorsi con Amin parla già di un possibile divorzio) ma soprattutto sembra ormai essere schiava delle proprie condizioni materiali. E il fatto che continui a fantasticare di questo weekend a Parigi con Amin (sognando di non tornare mai più a Sète) ha più il sapore di una prefigurazione di un rammarico futuro che non il sogno di qualcosa che potrebbe davvero accadere. E infatti noi non la vedremo mai partire e l’impressione è che la vita della fattoria finirà per schiacciare l’erotica vitalità della sua vita nel primo film.

Ma in generale tutti gli elementi tipici del cinema di Kechiche, e in particolare di questa trilogia, sembrano venire degradati in quello che ha tutta l’aria di essere un epilogo amaro. Il cibo che da sempre rappresenta un oggetto erotizzato dello sguardo di Kechiche, diventa qui il suo contrario con l’attrice americana che si ingozza in modo nevrotico mentre il produttore/marito vorrebbe metterla a dieta. Ma anche nella fattoria di Ophélie, i piccoli agnellini si ammalano e finiscono per essere decimati laddove nel primo erano un’allegoria della vita. E persino il turbinio erotico di corpi che ballano che aveva contraddistinto le scene in discoteca del primo film e soprattutto di Intermezzo qui rimangono fuori campo (ma ne percepiamo comunque il decadimento dato che la festa in discoteca viene qui sostituita da una competizione dal sapore un po’ sessista per la ragazza che balla meglio)

E se questo film rappresenta il lato oscuro del desiderio di contro a quello vitalistico, e se l’oscurità ha preso il posto della luce, è evidente che dalla vita non si possa che passare alla morte, soprattutto in forma metaforizzata. E infatti la potenza fallica dell’eroticità di Tony verrà sostituita dalla pistola, la vitalità proletariata della casa povera ma piena di desiderio di Ophélie verrà sostituita da una lussuosa villa di una coppia in crisi e senza desiderio, fino all’arrivo di Clément che vestito da militare andrà ad incarnare il ritorno della legge matrimoniale e della coppia mononucleare. Eppure, la conclusione mantiene quella struttura radicalmente aperta con cui si chiudono tutte le opere di Kechiche: Krimo che si allontana da solo, Adèle che cammina in lontananza sul marciapiede, Charlotte e Amin che passeggiano in lontananza sulla spiaggia. Segno che forse non si tratta di un destino ineluttabile quello di alternare lo sguardo vitalista, giovane e desiderante a quello disincantato e malinconico. E che il rapporto tra la luce e l’oscurità, il tempo e l’eternità, è la posta in palio aperta di ogni pratica dell’immagine così come della vita stessa.