Dopo Tabu Miguel Gomes prosegue il suo percorso registico continuando a rivolgere lo sguardo alle proprie spalle. Anche in questo caso non si tratta di un’operazione nostalgica, ma ancora una volta di un atto fondativo: ricominciare daccapo alla luce di quanto già fatto. È come se il regista facesse propria la lezione dechirichiana sull’occorrenza di essere originari piuttosto che originali; invertire il vettore, dirigerlo verso il passato, a patto di non evocarlo in modi pigri e conformi, ma discontinui.
Se con l’opera precedente aveva trovato la cifra interpretativa, il modello e la fonte di legittimazione del proprio agire nell’immagine nuda e primigenia del cinema muto delle origini (nello specifico in Tabù di Murau), in Redemption (cortometraggio di 26’ presentato nella sezione Fuori Concorso) il termine di riferimento è il materiale d’archivio (pellicole a colori in Super 8 e bianco e nero in 16mm).
Il film è diviso in quattro parti. Per ognuna una diversa voce e lingua narrante (portoghese, italiano, francese e tedesco) che racconta in prima persona un episodio privato segnato da un inelaborabile senso di colpa per un’occasione mancata. Traumi ordinari commentati visivamente da immagini di repertorio legate al contesto che fece da cornice alla situazione rievocata. Inserti visivi discreti che, se anche rimandano a eventi storici ingombranti (come ad esempio l’Italia post-fascista o la Germania antecedente la riunificazione) non tolgono universalità alla rievocazione aneddotica.
Un’operazione lirica di found footage (letteralmente “pellicola ritrovata”) che permette di costruire una narrazione e attribuire un senso unitario alle immagini frammentate. Un’appropriazione autoriale di tracce di memoria privata che ridà una dignità ontologica a frammenti di girato anonimi altrimenti destinati all’oblio.
Gomes realizza uno straordinario objet trouvè, un film-garbage dove esalta il valore della bassissima definizione, lavorando sulla grana dell’immagine, mettendola al centro del discorso registico, dimostrando al contempo una sensibile consapevolezza della complessità delle immagini utilizzate, nonché del contesto storico, sociale e relazionale nelle quali queste hanno avuto origine, non rinunciando comunque alla volontà di ripensarle, di dare loro una vita differente e di trovare dei nuovi significati in ciò che già ci appartiene.