La cosa che a prima vista colpisce di Feng Ai (‘Til Madness Do Us Part), nuovo film del regista cinese Wang Bing, lo scorso anno vincitore di Orizzonti con San Zimei (Three Sisters), è la potenza del soggetto, la scelta di immergersi fino al collo in un luogo dove l’umano sembra dimenticato e il cinema interviene per redimerlo, forse salvarlo.
L’inferno sulla terra è un manicomio in cui sono rinchiusi una cinquantina di uomini, pazzi, criminali, oppositori politici, individui annullati dalla prigionia e stipati a gruppi di quattro in stanze minuscole dove il solo segno di civiltà è un letto, mentre tutto il resto è sporcizia, squallore, sonno infinito, sbarre di ferro, medici che non visitano e altri che usano le manette.
Entrato chissà come nella struttura, Wang Bing filma ciò che vede, sta lì e guarda, e per fortuna la sua presenza genera una sorta di rinascita nei pazienti che incontra e sceglie di seguire, una messinscena disperata e insieme vitale, allestita appositamente per la macchina da presa. Emergendo dalla coltre di coperte sotto le quali passano buona parte delle loro giornate, abbandonati a se stessi e al tempo che li logora, i matti di Feng Ai risorgono davanti all’obiettivo di una camera digitale a bassissima definizione, corrono lungo il perimetro del piano, saltano da un letto all’altro, litigano, urlano, pisciano, rubano.
L’effetto è scioccante, al limite del sopportabile, ma lo sguardo forse impudico di Wang Bing ha la forza di resistere (il film dura tre ore e cinquanta minuti), si accorge dello spettacolo che gli si para davanti e va a caccia della storia, della traccia narrativa, trovandola prima nella dignità di una moglie che ha fatto rinchiudere il marito ma ancora lo accudisce, poi nella scelta di uscire dal manicomio per osservare la vita della donna e infine di ritornarvi per osservare il miracolo di una condivisione inattesa, di riti sociali spontanei e bellissimi.
Perché la follia potrà anche separare e dilaniare, ma la vita resiste anche nel tanfo di piscio, nello sporco delle lenzuola, nel caldo morboso e insopportabile di infinte dormite che sembrano, ma non sono, il preludio della morte.