Un’ora. Un’ora di dialoghi, discussioni, domande, risposte, sguardi, silenzi e interrogazioni, per di più senza andare di corsa, ma semplicemente costruendo la solida e invisibile struttura di un mondo…
Ci mette un’ora il sorprendente e inatteso L’hermine a diventare un film con qualche piccola debolezza, ricorrendo alla solita canzone indie-pop per spezzare il ritmo e lasciando per un attimo i personaggi alla loro solitudine, fuori dal tribunale della città francese in cui è per buona parte ambientato, o al massimo fuori dai bar e dall’albergo che gli orbitano accanto.
Protagonista non è solamente il giudice della Corte d’assise che presiede il processo per l’uccisione di una bambina di sette mesi (un grandissimo Fabrice Luchini), ma, insieme a lui – sessantenne separato dalla moglie, uomo di legge esperto e un po’ crudele, temuto e insieme deriso dai colleghi – le figure che popolano l’aula di un tribunale: i giudici a latere, gli avvocati della difesa, il pm, i giurati, gli imputati, i testimoni.
È attraverso loro, sotto lo sguardo indagatore dell’uomo di legge, che si delinea il quadro di un società – quella francese – strutturata verticalmente, ancora oggi pesantemente divisa in classi, ma chiamata ad affermare un principio di giustizia, a stabilire un senso comune che distingua ciò che è lecito da ciò che è illegale.
In maniera sottile, quasi invisibile e mai soffocata, grazie alla precisione dei dialoghi, dei particolari, dei volti e delle battute, L’hermine costruisce l’immagine a molteplice dimensione di un mondo stratificato. Sono le parole dei giurati, uomini e donne comuni chiamati a partecipare alla cosa pubblica, a chiarire il valore di una provenienza nazionale, regionale e urbana, a indagare livelli di cultura ed educazione, a stabilire le priorità che regolano una società di colti e di disoccupati, di violenti e di invidiosi, di ricchi e di poveri.
E sono i vestiti (una sciarpa rossa, un collo d’ermellino, un maglione sformato, un paio di leggins a fiori, un giaccone pesante, un paio di anfibi) a determinare la colpevolezza o l’innocenza di un uomo, a svelare soprattutto lo stato sociale di una persona, la vita quotidiana di una coppia di potenziali assassini e di autentici disperati.
E, ancora, sono i gesti, i semplici e nudi gesti della realtà che ogni giudice è chiamato ad analizzare senza emozione, ad affermare non la verità delle cose, ma la possibilità di trovare un senso e una giustizia nel dipanarsi delle cose. Gli stessi gesti, però, che nella vita privata di quello stesso giudice – innamorato di un’anestesista incontrata anni prima e ritrovata in tribunale come giurata popolare – diventano non fredde evidenze, non prove agli atti, ma sfumature, segnali d’amore o di semplice interesse, linguaggio del corpo che invoca la comprensione e l’amore che in aula di tribunale si negano a chiunque…
L’hermine ricorda vagamente La ballata di Adam Henry di Ian McEewan, ha un protagonista molto simile: un giudice (nel caso del romanzo, una donna) che oppone il rigore della legge all’impenetrabilità del reale e crolla di fronte all’emergere del sentimento.
A un certo punto – dopo la splendida, compattissima, quasi impercettibile prima ora di film – segue a differenza del romanzo la via della commedia, perdendo forse in profondità ed intensità. Ma anche in questo caso non sbaglia quasi nulla, scegliendo ancora di giocare sugli oggetti, sui movimenti del corpo e sulle parole, tra il video di un cellulare, una canzone, due mani che si toccano, un vestito... E resta a sorpresa (onestamente: Christian Vincent non è certo un genio e alzi la mano chi non si aspettava la solita commedia geriatrica con Luchini) un frammento in stato di grazia di commedia umana, tra Balzac e il Carrère di Vite che non sono la mia.