Il cane Lolabelle, la madre, i ricordi e le fantasie dell’infanzia, teorie filosofiche e riflessioni sulla vita dopo la morte: c’è tutto questo, e anche di più, in Heart of a Dog, film di Laurie Anderson molto applaudito alla Mostra di Venezia.
Tanti ingredienti in un calderone piuttosto confuso, dove si rincorrono parole, scritte, immagini, disegni e colori in un mosaico composto da troppi tasselli e, come vuole il proverbio, anche in questo caso il troppo stroppia…
La vedova del compianto Lou Reed, che si considera artista a tutto tondo, firma così una pellicola che vive di continue suggestioni, funzionali e fascinose soltanto a tratti, capaci di ammorbare lo spettatore con la loro forza audiovisiva ma a ben guardare piuttosto vuote e fortemente autocompiaciute. L’operazione è certamente sentita e personale, ma la presunta sincerità di fondo si trasforma spesso in furbizia e in una poco coerente ridondanza narrativa.
Non è un punto a favore la breve durata (75 minuti, uno dei lunghi più corti dell’intero festival), anzi per una “storia” di questo tipo sarebbe stato più adeguato un mediometraggio, considerando che le riflessioni portate avanti dall’autrice si fanno chiare già dopo pochi minuti.
Narrato in prima persona, Heart of a Dog, più che un documentario, è una sorta di diario intimo trasposto sul grande schermo, in cui alle proprie esperienze si uniscono ragionamenti sul tempo e sul tema dell’identità: ma, in fondo, è proprio un’identità specifica che manca a un film urgente e necessario soltanto per chi l’ha fatto.
A noi rimane qualche bella scelta visiva e le intense musiche realizzate dalla stessa Anderson. Può bastare? Certamente no.