L’horror, da sempre, si basa su un paio di peculiari paradossi. Oltre all’ovvietà di far generare il piacere dall’inquietudine, il suo problema è che per funzionare davvero deve integrarsi in una struttura predefinita, in cui l’orizzonte d’attesa del pubblico rientra sempre in un margine piuttosto prevedibile. Per cui il meccanismo, anche quando si avvicina alla perfezione, rischia di essere sempre un prodotto medio, apprezzato dal fan di bocca buona e snobbato come già visto dai più raffinati. Difficili essere originali, quasi impossibile inventarsi qualcosa di nuovo, se non lavorare all’interno degli interstizi, allargandoli fino a occupare lo spazio della struttura. È quello che con Weapons fa Zach Cregger, il quale dal 2022, con il ben dosato thriller Barbarian, ha iniziato a realizzare drammi tesi e inquietanti, dopo essere stato interprete e creatore degli sketches televisivi di The Whitest Kids U' Know e aver realizzato un paio di film del tutto insipidi. Weapons però esce in un periodo pericoloso. A inizio agosto, quando, malgrado l’ottimistica idea di proporre prime visioni per 365 giorni l’anno, il pubblico pensa più alle pinne, al fucile e agli occhiali o, al massimo, nel caso degli irriducibili, a qualche arena estiva per una romantica visione sotto le stelle (e in mezzo alle zanzare), che a recuperare in una sala al chiuso l’ultima uscita (fortuna che schiere di influencer e qualunque sito di cinema stiano praticamente esortando tutti a correre a vederlo). Pur non giungendo nel pieno della stagione, Weapons contribuisce comunque a innalzare il livello medio del genere in questo 2025 che ha già regalato gioielli come I peccatori e Bring Her Back.
Trama semplicissima, risvolti traumatici, soluzione complessa. In una cittadina americana spariscono durante la notte diciassette allievi di una stessa classe. Tutti tranne uno, un bambino chiuso in se stesso e solitamente angariato dai compagni più prepotenti, che ora non ci sono più. Guardando le telecamere di sicurezza delle abitazioni si nota che i bambini sono usciti tutti simultaneamente e senza alcuna costrizione alle 2:17, quasi simulando un volo nella loro corsa verso non si sa dove. Non è certo nella trama che vanno ricercati gli elementi di originalità. Anzi, Cregger, nel suo entusiasmo cinefilo di misurarsi con la regia (guardare una sua qualunque intervista di presentazione su YouTube per credere), non fa assolutamente mistero delle palesi fonti di ispirazione utilizzate, dall’evidenza di Picnic ad Hanging Rock (pur allontanandosi progressivamente dalla sua metafisica della sparizione) all’epica coralità di Magnolia; dall’ambientazione provinciale esaltata dalla fotografia cupa di Roger Deakins in Prisoners a tutti i riferimenti, a partire dai tagli delle inquadrature, di Shining, film che per Cregger rappresenta un’autentica ossessione. In questo festival di omaggi, riferimenti e citazioni, l’originalità di Weapons non è nella superficie, benché ben confezionata (la fuga notturna in planata triangolare dei ragazzi è talmente iconica da campeggiare persino sui manifesti), quanto nella struttura.
Weapons, infatti, condensa il mistero della sparizione intorno a una costruzione suddivisa in diversi punti di vista, uno per ogni personaggio principale del film. Non un Rashomon effect, come si millanta un po’ in giro sulla scorta di una superficiale partizione delle prospettive; semmai il suo contrario, visto che nel film di Kurosawa il punto era l’inconoscibilità dei fatti che, con un diverso linguaggio, lo accomunava al Quarto potere di Welles. In Weapons, invece, i vari episodi focalizzati reinterpretano i medesimi aspetti narrati filtrati in una diversa ottica, permettendo una differente messa a fuoco che la visione dell’episodio precedente non consentiva. In pratica, i sei episodi si muovono a tenaglia verso la soluzione dell’enigma, malgrado per qualità e volontà di scrittura (Cregger scrive non sapendo quale sarà il punto finale cui approderà) alcuni varchi rimangano aperti, interpretabili dallo spettatore. Neanche questo è particolarmente originale, negli ultimi tempi lo abbiamo visto nella serie Disclaimer di Cuarón, ne L’innocenza di Kore’eda, perfino ne L’ultimo duello di Ridley Scott e lo vedremo, forse, in Bring them down di Chris Andrews, se mai uscirà in Italia dopo essere passato al Festival di Roma. Nell’horror, tuttavia, è un procedimento perlomeno insolito e così facendo trasforma il lavoro di Cregger, che già in Barbarian aveva diviso in due parti esatte la vicenda, in una materia cangiante che nel genere vivifica ma che si apre a squarci di mystery, di commedia, di dramma psicologico. Con diverse spruzzatine di splatter.
La divisione in capitoli permette oltretutto di sviluppare i vari aspetti di ogni personalità e di farli esaltare dall’interpretazione degli attori. Ogni personaggio possiede infatti un motivo ispiratore che funge da motore del racconto: Justine (Laura Garner), la maestra, in modo particolarmente simbolico, rappresenta il capro espiatorio; Archer (Josh Brolin, ma in origine avrebbe dovuto essere l’uomo-ovunque Pedro Pascal) la disperazione che si fa dapprima visione e poi possibilità; Paul, il poliziotto (Alden Ehrenreich, con un bel paio di baffoni per omaggiare John C. Reilly in Magnolia) il senso di colpa che diventa grottesco autolesionismo; James, il ladruncolo tossico, l’inattendibile perché emarginato; Marcus, il preside, l’impotenza dell’istituzione educativa e infine Alex, l’alunno risparmiato dalla scomparsa generalizzata (il cui interprete, Cary Christopher, ha molto delle fissità inquietante dell’Haley Joel Osment de Il sesto senso e del bambino di The Ring), il ricatto della verità gravato dal senso di sopravvivenza familiare.
Tante cose per essere solo un horror, così come il senso nascosto, le presunte metafore soggiacenti, frutto di elaborate interpretazioni, a partire dal titolo e da un paio di battute che alluderebbero al problema della libera circolazione delle armi. Eppure, malgrado i mille rivoli in cui potrebbe smarrirsi, il tutto ha una sua notevole tenuta drammatica. La costruzione della suspense, grazie anche alla cura dell’ambientazione e delle atmosfere suburbane, permette a Weapons di essere un prodotto credibile e pienamente riuscito. Spicca soprattutto la capacità di Cregger di gestire la tensione “in levare”, riuscendo a capire perfettamente cosa NON mostrare (il problema dell’horror da Val Lewton in avanti), quando rivelare l’assurda maschera dell’irriconoscibile Amy Madigan nei panni della zia Gladys (alzi la mano chi non ci ha visto il Robert Blake di Strade perdute) e quando riempire la narrazione di silenzi che si caricano psicologicamente di un’attesa pronta a deflagrare e mai in modo pretestuoso. Se a questo aggiungiamo le improvvise rapsodie, ossia la scelta del direttore della fotografia Larkin Seiple di non limitarsi a osservare l’azione ma di gettarvisi spesso all’interno per un’immersione drammatica condivisa con lo spettatore, riusciamo a capire perché Weapons, a dispetto della scelta di distribuzione, è un horror che resterà.
Quando tutti i bambini di una stessa classe, tranne uno, scompaiono misteriosamente nella stessa notte esattamente alla stessa ora, l’intera comunità si ritrova a interrogarsi su chi – o cosa – sia responsabile della loro sparizione.