Gioca sul tempo l'ultimo film di Jerzy Skolimovski, sugli 11 minuti del titolo naturalmente, e sulla costruzione di uno spazio visivo e sonoro stratificato e attraversato (in poche vie del centro di Varsavia) da undici personaggi dalle vite inconsapevolmente collegate.
Se non fosse morto nel 1994, probabilmente Kieslowski sarebbe arrivato anche lui a girare, oggi, un film simile a questo: un film sulle costruzioni precise e sottili del destino e, in contrasto, sul sistema caotico e beffardo del caso; un film fatto non solo di traiettorie e deviazioni, di incroci e incontri fra personaggi, ma, visti i tempi, anche arricchito (o appesantito, a seconda dei punti di vista) da inevitabili, ormai naturali, quasi parodistiche, riflessioni sulla pervasività delle immagini e sull'immaginario digitale.
In 11 Minutes, nel suo mosso, agitato, anche prevedibile e tutto sommato dimenticabile divertissement da vecchia volpe che ha ancora voglia di divertirsi, Skolimovski ci mette di tutto, dai filmati di uno smartphone ai selfie, dalle false soggettive traballanti ai pixel che si sommano ad altri pixel fino a creare una forma evoluta di reale, una sua continua stratificazione e al tempo stesso la sua dissoluzione in uno schermo grigio e gracchiante. Dall'eccesso di visione alla materia grigia. L'esatto opposto di Sokurov, per dire, che nel finale di Francofonia dietro una superficie monocroma scorge i fantasmi della visione.
Skolimovski si diverte a far convergere le sue storie molteplici nello stesso punto, gioca col destino alla maniera di Kieslowski. Ma essendoci stati nel frattempo una miriade di film corali, di racconti a mosaico, di teoremi alla Arriaga-Iñárritu sugli effetti dei battiti di una farfalla, non può che giocare con le sue immagini uniche e molteplici, non può che muovere le tessere del suo puzzle per vedere come comporle e poi stare a guadare l'effetto che fanno quando esplodono.
In 11 Minutes, così, l'esplosione è ideale e al tempo stesso letterale, perché il lavoro sul suono e sulla tensione delle undici storie incrociate è così insistito e caricato, così esagerato ed esposto, da sfociare inevitabilmente in una deflagrazione alla Die Hard (per altro girata in maniera strepitosa, questo va detto). È in fondo il pixel mancante nello schermo di servizio, la macchia nera di acquerello sul foglio di carta, a scartare dalla norma e a definire una nuova forma dì realtà, dunque di racconto. Il disegno - il film insomma - sta lì sullo schermo per essere rovinato, per portare impresso il marchio del caos e ribadire l'impotenza delle immagini, che del reale catturano tutto, anche la più piccola sbavatura, tranne la sua direzione.