In un festival dove Charlie Kaufman ha presentato un film (Anomalisa) molto meno labirintico di quanto ci si potesse aspettare, un film nel quale la scena onirica non aggiunge complessità alla storia, ma semmai la riduce portandovi elementi utili alla sua interpretazione generale, è stato inaspettatamente un regista turco a costruire una struttura stratificata dove realtà e sogno sono mischiati e confusi.
Uno di quei film sui quali, all’uscita della sala, si potrebbe discutere all’infinito, come davanti a una storia di Lynch, alla ricerca dei “veri” significati che sono nascosti dietro l’apparenza “letterale” di quello che vediamo compiersi sullo schermo. Tex Avery indicava con dei cartelli “the end of technicolor” e, in modo analogo, i film spesso mettono dei segnali che consentano di cogliere dove si collochi la soglia tra la realtà e quel che realtà non è ma sogno, fantasia, memoria. Ermin Alper non lo fa e spiazza più volte lo spettatore, lasciandolo continuamente indeciso sullo statuto delle immagini.
Una certezza, comunque, il film la dà. Ad essere ritratto è il clima paranoico che domina la società e la politica turche – l’ossessione securitaria che porta a cercare costantemente dei nemici (gli armeni, i curdi, le opposizioni politiche al governo, ecc.) che minacciano la tenuta dello stato e la sua sicurezza. Tale clima si riflette in una instabilità personale e relazionale, poiché il tessuto fiduciario su cui si regge una società viene irrimediabilmente lacerato.
Se fosse solo questo – i dossier spionistici preparati dal protagonista o le uccisioni dei cani come segni di una più generale organizzazione della società – ci troveremmo nei territori abituali di tanto cinema turco che si vede ai festival, dove pratiche violente (Sivas di Kaan Mujdeci) o padri autoritari (Çoğunluk di Seren Yüce) sono sintomi di un nazionalismo pervasivo e di una violenza che permea tutta la società. Per buona parte dello svolgimento – anche se, fin da subito, non tutto quaglia perfettamente (fin dall’incipit emergono elementi non reali) – sembrerebbe in effetti di trovarsi in un film leggibile in questa chiave, come rappresentazione realistica, verosimile ed emblematica.
Procedendo, però, Alper confonde sempre più le carte, lasciando che lo spettatore perda – al pari del protagonista – i parametri che gli permettono di separare la realtà dal sogno. Lo spettatore deve allora costruire da sé i propri punti di riferimento, dando ad alcuni elementi della storia o della messa in scena valore di indizio rivelatore.
Io non posso che proporre la mia lettura, avvertendo che quel che segue è una sorta di spoiler. Non perché riveli che il maggiordomo è l’assassino, ma perché – giusto o sbagliato che sia il quadro che emerge – propone (a grandi linee) un possibile completamento del puzzle (mentre il piacere dello spettatore starebbe proprio nel mettere insieme autonomamente i tasselli del puzzle).
Detto in breve, può darsi che i tre fratelli siano in realtà una sola persona: la storia che il film racconta sembra il delirio di un uomo prossimo alla morte (probabilmente in un carcere o in un manicomio criminale) al quale si ripresentano i frammenti della sua vita: ecco dunque la giovinezza (il fratello più giovane), l’età adulta (il fratello di mezzo) e l’età più avanzata (il fratello più grande). Vista in questo modo, la storia che ci viene narrata in forma non lineare è quella di un uomo che è stato membro di gruppi terroristi (fratello di mezzo) a cui si è avvicinato per il suo interesse verso quei deboli che un paese profondamente intriso di violenza e di gerarchia tende piuttosto a schiacciare (l’accudimento del cane ferito del fratello più piccolo), ma da cui si è poi distaccato, tradendoli e diventando informatore delle forze di polizia (il lavoro del fratello più grande) – forse spinto da banali ragioni (cherchez la femme: la molletta per i capelli e il discorso che il grande fa al piccolo: “non commettere adulterio!”). Tradimento degli ideali e delle proprie relazioni sarebbero perciò all’origine di una percezione sempre più distorta e schizofrenica della realtà.
Che questa possa essere una lettura plausibile sembra trovare conferma in vari elementi indiziari. L’ambientazione – come dice nelle note di regia – “non determina con precisione il momento in cui si svolge: si potrebbe trattare di un presente, passato o futuro fittizio”. Nel ricordo i fratelli possono essere confusi (chi costruiva le barchette per il più piccolo?) e, nel conteggio degli anni di prigione del primogenito o degli anni di sparizione del mediano, c’è qualcosa che non torna...
Che davvero l’autore abbia pensato la storia in questo modo non è dato sapere – sia lui che Charlie Kaufman, nelle rispettive conferenze stampa, hanno declinato di rispondere a domande sull’“autentico” significato dei loro film, enfatizzando piuttosto la libertà dello spettatore e la legittimità di qualsiasi lettura a partire dalla propria esperienza di visione.
Come valutare la complessità dello script (una complessità che emerge a poco a poco) – gratuita o stimolante? – è altra questione su cui si potrebbe dibattere a lungo: chi scrive confessa di non avere una risposta certa alla domanda. Di certo c’è che Ermin Alper è regista che sa il fatto suo (per citare un solo aspetto, è molto interessante, anche nei suoi lati disturbanti, il sound design).