Dopo aver ideato folli divertissement pubblicitari negli anni ’90 (tra cui i memorabili spot in stop motion per il cacao Van Hauten), raccontato la musica attraverso un video grottesco che ricorda l’autofagia surreale di Švankmajer (L’amour a la sauvette), girato un mini horror perverso con marionette mutile (Le cavalier bleu) e aver diretto nel 2011, sotto forma di abecedario visivo, un cortometraggio interamente dedicato al regista polacco Borowczyk (Boro in the box), Bertrand Mandico esordisce a Venezia con il suo primo lungometraggio, Les garçons sauvages.
Il film è il coerente prosieguo di una poetica definita e inconfondibile, basata sulla contaminazione audio-visiva e su un erotismo bestiale, surreale, irriverente. La cifra distintiva è l’abbattimento dell’identità (intesa come esser-uno), la messa in discussione della certezza di genere e il sovvertimento dell’immagine (poiché non interrompe ma alimenta l’identificazione tra finzione e realtà, tra spettatore e personaggio). Per questi motivi, il film di Mandico ha lo statuto della membrana: l’immagine è permeabile, non distanzia ma inghiottisce, invita lo spettatore a varcare il limite metaforico dello schermo per immergerlo nel soddisfacimento pulsionale e nell’impossibilità di raggiungere il godimento ‒ che in Mandico è sempre refrattario, mortifero, passa attraverso i corpi, deturpandoli, per poi errare di oggetto in oggetto.
Da artigiano del cinema come ama definirsi, il regista francese gioca con i riferimenti, le citazioni (dai numeri di prestigio di Méliès, al cinema dadaista, passando per il surrealismo e l’erotismo ferale di Borowczyk), colora e decolora l’immagine, la sporca, confonde i piani, sprofonda nel meta-cinema per poi risollevare il tempo e lo spazio alla tradizionale linearità. Linearità che, sebbene non venga particolarmente stravolta con interventi di interruzione o frammentazione, perde le consuete caratteristiche di immutabilità e rigidità per acquisire una natura elastica, transitoria, dominata da luoghi immaginari dove le pulsioni che vi abitano sono generate da potenziali spazi di continua (in)soddisfazione.
A livello d’intreccio il film mette in scena il viaggio di redenzione/trasfigurazione di un gruppo di ragazzini appena adolescenti, colpevoli di aver stuprato e ucciso la propria insegnante, ma Les garçons sauvages sconvolge e tramortisce soprattutto grazie all’irriverente e dissacrante potenza visiva.
Mandico trasforma il tragitto rieducativo in un cammino di iniziazione pulsionale, costellato di simboli, di fluidi, di sperma e sangue. Ciò che scandalizza e atterrisce, tuttavia, accanto alla sessualità violenta dei protagonisti e alla loro perturbante androginia, è l’immagine-corpo del cinema di Mandico. Grazie alla destabilizzante migrazione audio-visiva e al capovolgimento dell’immagine-schermo in immagine-permeabile - la cui funzione non è più quella di isolare lo spettatore dallo spettacolo bensì di articolare una dialettica che mette entrambi sul medesimo spazio liminare - il cineasta francese ispessisce la rappresentazione con una dimensione organica il cui punto focale non è l’atto meramente visivo, ma una sorta di fruizione corporea, vitale e liberatoria.