«Non osavo quasi confessare a me stesso la mia meta, ancora per via ero oppresso dal timore, e solo quando passai – per Piazza Vittorio – seppi per certo che Roma era mia». Manomettiamo l’estratto ripreso da Viaggio in Italia di Goethe per dire di quello che sta compiendo Abel Ferrara. Piazza Vittorio è un documentario sull’immigrazione girato da un immigrato in un contesto che, da sempre, rappresenta uno spazio laboratoriale dove si continuano a sperimentare inedite forme di socialità.
Il tema è lo stesso di quello affrontato da Ai Weiwei in Human flow, a esserne stravolta però è la prospettiva: se l’artista cinese ambiva, mancando il risultato, a mostrare il fenomeno nella sua globalità, Ferrara opta invece per uno sguardo parziale, rivolto ad una delle infinite declinazioni in cui si esprime il multiculturalismo. Una scelta denunciata e legittimata dalla presenza, in scena, dello stesso regista. Quella che viene mostrata non è Piazza Vittorio, ma come Ferrara vede quel luogo; un’operazione di messinscena del reale rimarcata dalla scelta di mostrare momenti di making of, come quando vediamo il regista discutere in merito alla costruzione di una scena e contrattare il prezzo per un’intervista rilasciata da una delle tante persone coinvolte.
Differenza ulteriore rispetto a Weiwei è poi nel registro: se il primo affronta la questione ponendola in termini di problema, adottando quindi una retorica dai toni emergenziali, Ferrara preferisce affrontare il tema concentrandosi sulle possibilità offerte dall’interazione tra le persone che coesistono in una situazione ristretta com’è quella della Piazza.
Chi partecipa alla scrittura della catastrofe spesso tende a farlo dall’alto di un osservatorio privilegiato; Ferrara, al contrario, si immerge nelle situazioni ne è intimamente coinvolto, inglobato, e dunque le vede muoversi col proprio stesso movimento. Un movimento ondivago, privo di direzionalità, perso in un rizoma di probabilità.
Anche lui gira come un “cane senza padrone” per le strade di quella “stupenda e misera città” che è Roma, che, come già a Pasolini, gli permette di «fare / esperienza di quella vita / ignota: fino a – fargli - scoprire / ciò che, in ognun, era il mondo». Anche lui sa che «solo l'amare, solo il conoscere / conta, non l'aver amato, / non l'aver conosciuto». E il suo cinema, sempre più sbrindellato, povero, sbagliato, sempre reinventato ne è la dimostrazione.