Siamo in Islanda, in uno di quei giorni in cui il bianco del cielo non si distingue da quello della terra e del mare. Una macchina avanza per una strada tortuosa e improvvisamente precipita da una scogliera. A bordo c’era la moglie di un poliziotto in pensione, che tempo dopo è ancora alla ricerca degli strumenti per elaborare il suo lutto. Ingimundur riempie le sue giornate di lavori manuali, passa il tempo con la nipotina, cerca di approcciarsi ai suoi vecchi colleghi per impegnare la mente. Ma in lui cresce il tarlo di un dubbio: forse la donna lo tradiva e finché non avrà scoperto la verità il suo spirito da segugio ferito non gli darà pace.
A White White Day, opera seconda dell’islandese Hlynur Pálmason, che già si era fatto notare con il precedente, bellissimo Vinterbrødre, presentato a Locarno nel 2017, parte da uno spunto drammatico – a metà tra l’investigazione privata e la crisi esistenziale – per costruire il racconto di un personaggio sempre più vittima della propria rabbia, un uomo a cui il baratro emotivo spalanca le porte della violenza. Nella prima parte del film Ingimundur è descritto letteralmente come una bomba inesplosa: silenzioso, ieratico, minaccioso. Il suo essere un padre e nonno amorevole si scontra con improvvise durezze (memorabile una scena in cui l’uomo racconta alla nipote una storia via via più spaventosa, quasi compiaciuto di una forma di tortura che riserva anche alle persone che più ama) che lo plasmano in un vettore rabbioso, pronto a colpire alla ricerca di una vendetta nichilista più che catartica. Pálmason, non fa sconti al suo protagonista, lo descrive in maniera asettica e anaffettiva, entrando nel suo dolore ma descrivendone la deriva furente, senza abbellimenti o pietà. Ingimundur è un personaggio disturbante, pronto a far pesare il suo dolore con crescente ferocia, come se nel mondo emotivo di Inside Out Rabbia avesse assunto il comando completo delle operazioni. Lo stile rispecchia l’humour glaciale della narrazione: lunghi piani in cui lo sterminato paesaggio islandese assume dei contorni da favola nera, inquadrature controllate ma sempre sul punto di rottura, pronte a suggerire una situazione costantemente sull’orlo del baratro.
Palmason gioca su una suspense acida, ipnotizza con studiate reiterazioni, che allungano e comprimono le sequenze donando alla narrazione uno squilibrio disagevole perfettamente aderente al crollo del protagonista (il bravissimo e inquietante Ingvar Sigurðsson), vittima di un’ossessione da cui non prova neanche a liberarsi. E se la seconda parte del film – nobilitata però da un magnifico finale – risulta un po’ più meccanica, questo non depotenzia l’originalità della costruzione narrativa e sintattica del film, il suo ragionare con profondità e un ghigno ironico alle imperscrutabili ragioni dell’ira. A White White Day è un film che non chiede empatia e mostra con orgoglio il suo lato patologico, riuscendo a suscitare disagio di fronte a un mondo afasico, pronto a chiedere conto con ogni mezzo, anche il più violento, alla natura indicibile del dolore e della perdita.
In una remota cittadina islandese, Ingimundur è un capo di polizia in congedo dopo la scomparsa della moglie in un inspiegabile incidente stradale. Quando viene ritrovata una scatola con alcuni effetti personali della donna, Ingimundur inizia a sospettare che lei lo tradisse con un uomo del posto. Lentamente la ricerca della verità diventa ossessione e inevitabilmente l’uomo inizia a mettere in pericolo se stesso e i propri cari. Un’intrigante storia di vendetta e amore incondizionato.