Simmetria e perfezione sono i due termini sui quali la fotografia di Caroline Champetier sceglie di aprire Agnus Dei. Simmetria e perfezione, sul piano architettonico, dell’arco, che struttura il camminamento coperto attorno al chiostro del convento; simmetria e perfezione, sul piano musicale, del canto gregoriano, recitato in due file simmetricamente contrapposte e perfettamente lineari, sul piano visivo, dalla serie di suore. È dunque, quello dei conventi, un mondo tanto rigoroso, quanto equilibrato e pacifico. Silenzioso, ovattato, scandito da rituali e doveri precisi, eppure – e bastano pochi secondi per intuirlo – fortemente incrinato da qualcosa. In sottofondo al canto di preghiera, un urlo; nelle file di donne inchinate a rendere grazie a Dio, una testa che non si piega.
Queste donne nascondono un segreto. Un segreto enorme e sconvolgente, che solo suor Marie (Agata Buzek) avrà il coraggio di affrontare apertamente, andando in città a cercare l’aiuto della dottoressa Mathilde Beaulieu (Lou de Laâge): molte delle suore sono state vittime di abusi da parte dei soldati sovietici e sette di loro sono incinte. Una storia vera, che risale alla Polonia del ‘45. Una storia che parte dalla violenza carnale subita, dallo stupro e dal dolore che lo accompagna, per andare oltre: come affronta tutto questo una sposa di Gesù?
La prima reazione è, necessariamente, quella a cui queste donne – “les innocentes” del titolo originale del film di Anne Fontaine – sono più abituate: la chiusura, la colpa. Tacciono ciò che ai loro occhi appare un irrimediabile peccato, portano in silenzio il fardello della vergogna, si barricano nell’oscurità del convento, così fortemente protetto da porte inaccessibili (per uscirne Marie passerà da una feritoia nel muro). Il timore di una donna comune, nel denunciare al mondo una violenza subita, si moltiplica esponenzialmente, invischiandosi tra i doveri di una figura religiosa. Così, anche quando Mathilde si confermerà in grado di porre rimedio, rimarrà presente e opprimente l’impossibilità di spogliarsi di fronte a un occhio estraneo, di essere toccate anche solo per una visita di controllo. Ed è proprio in questo duplice tormento di donne che, oltre ad esser donne, sono anche devote, che Agnus Dei trova la sua forza, facendosi un film doloroso, dal quale è impossibile distogliere lo sguardo, sebbene una morsa stringa lo stomaco dello spettatore dalla prima all’ultima inquadratura.
Non c’è solamente il senso di “sporco”, di “sbagliato”, di fragilità che chiunque proverebbe di fronte a uno stupro; c’è anche la paura della dannazione, il timore di perdere la fede, e con essa, essenzialmente, il fondamento della propria vita e di se stesse. Quale Dio consente che le sue spose vengano violate? E soprattutto, perché lo fa? La sola risposta possibile sembra trovarsi proprio lì, in quella fede che si vede svanire davanti ai propri occhi: «La nostra consolazione è pregare», si ripeterà più volte nel corso del film.
E sarà grazie alla preghiera, ma anche grazie alla forza morale di Mathilde – che mai le tradirà, e riuscirà a essere accolta come una figura chiave nel processo di “guarigione”, attraverso un abbraccio a metà della pellicola –, che le donne riusciranno a non perdere la speranza. Nell’incontro col mondo profano della dottoressa (che è pure atea), starà la risposta per un nuovo sguardo: i bambini non sono più un castigo, un tradimento divino, da “affidare a famiglie sconosciute” (con la tradizionale bugia del “posto migliore” che sottintende la morte), bensì doni. Una suora può essere madre? Sì, è la risposta di Anne Fontaine e degli sceneggiatori Pascal Bonitzer e Alice Vial. Una suora può essere madre, in quanto prima, ed essenzialmente, è donna. Il suo essere devota diverrà punto di forza e non chiusura verso il mondo esterno – l’apertura si avrà visivamente con un’inondazione di luce nel chiostro, e narrativamente con l’ingresso dei bambini orfani nel convento – e verso la sua “essenza”. L’essere suora non sarà più un antipodo dell’essere donna. La fede si farà valore aggiunto, e non più elemento di limitazione e di costrizione della “femminilità”.
Polonia, 1945. Mathilde, un giovane medico francese della Croce Rossa, è in missione per assistere i sopravvissuti della Seconda Guerra Mondiale. Quando una suora arriva da lei in cerca di aiuto, Mathilde viene portata in un convento, dove alcune sorelle incinte, vittime della barbarie dei soldati sovietici, vengono tenute nascoste. La donna diventa la loro unica speranza.