Proprio nei giorni in cui si organizzava lo scambio tra prigionieri russi e prigionieri ucraini che avrebbe dovuto, simbolicamente, porre fine alla Guerra del Donbass, a Venezia tre anni fa veniva presentato Atlantis di Valentyn Vasyanovych. Un pugno nello stomaco. Un film implacabile che procede per lunghi piani per lo più fissi e frontali lasciando l’orrore, il dolore, la disperazione, la fine e anche la speranza (in un certo senso) affiorare dalle ferite che sono della terra oltre che degli individui.
Per riflettere sulle conseguenze di un conflitto che non è neppure ancora ascrivibile al passato più recente, il regista sceglie di immaginarne le conseguenze pensando al suo paese in un futuro prossimo, dopo la conclusione degli scontri. Muovendosi tra le coordinate di una distopia estremamente realistica e ben poco fantascientifica, Vasyanovych accompagna Sergeij nel difficilissimo tentativo di riprendere in mano la sua vita camminando sulle macerie lasciate dalla guerra. La sindrome post traumatica di cui soffre Sergeij è infatti la stessa di cui soffre il terreno su cui poggiano i piedi i sopravvissuti; un terreno sotto la cui superficie giacciono mine da disinnescare e cadaveri da ricomporre, un terreno da vangare e scavare per riportare alla luce sia le une che gli altri e cercare così, tra le suture e le cicatrici, la possibilità eventuale di una ricostruzione. Il terreno, come le persone, come le case, le miniere e le fonderie, la società e l’economia… tutto è maceria, tutto è contaminato, tutto è da bonificare.
Muovendosi in una sorta di deserto fangoso, costantemente bagnato dalla pioggia, freddo, inospitale, reso dalla guerra inadatto alla vita, Sergeij prova a guardare in faccia ciò che resta cercando di capire se ci possa essere un dopo, se sia possibile immaginare un futuro. E così, muovendosi tra ruderi industriali, campagne sterili, cimiteri improvvisati, cadaveri senza nome Sergeij comincia a capire che nemmeno andarsene è una possibilità perché le macerie che si porta dentro lo hanno ormai reso inadeguato a qualunque alternativa. Nemmeno un amplesso rubato, il tentativo di rinchiudersi in una bolla di dolcezza e consolazione riesce a tenere lontano il fuori, ad asciugare la pioggia, a fertilizzare il terreno. Almeno non nell’immediato. Un incubo gelido e funereo in cui, forse, l’unico fievole spiraglio è quello del calore. Il calore dell’abbraccio tra Sergeij e Katya che, ripreso ad infrarossi come il brutale assassinio del prologo del film, sembra lasciar entrare – per lo meno - l'idea di una ciclicità in cui dopo la morte, in un modo o nell'altro, si torna a pensare alla possibilità della vita. Forse.
In un futuro prossimo, nella regione del Donbass la guerra tra Ucraina e Russia è terminata. Sergeij, un ex soldato che soffre di stress post-traumatico, non riesce ad adattarsi alla sua nuova realtà: una vita a pezzi, un Paese in rovina, un deserto inadatto alla presenza umana. Quando la fonderia in cui lavora chiude definitivamente, Sergeij trova un modo inaspettato di cavarsela, unendosi alla missione volontaria del Tulipano Nero, specializzata nel recuperare cadaveri di guerra. Lavorando accanto a Katya, capisce che un futuro migliore è possibile. Imparerà a vivere senza la guerra e ad accettarsi per quello che è?