Avatar – La via dell’acqua non aggiunge nulla a quanto già mostrato tredici anni fa nel primo episodio, ma dimostra inequivocabilmente come James Cameron abbia sempre avuto ben presente, fin dall’inizio, il suo progetto di estensione della percezione cinematografica. A dispetto della ciclicità con cui ogni tanto fa capolino nella storia del cinema la visione in 3D (da pochi anni si è conclusa la terza), Cameron nel 2009 aveva tracciato una strada che in pochissimi, anche nei casi migliori, hanno seguito, restando bloccati in un ambito spettacolare che seppur con mezzi tecnicamente più sensibili non è mai risultato molto dissimile dagli esempi della prima fase, quella della prima metà degli anni Cinquanta, con l’unica eccezione, probabilmente, del Dunkirk di Nolan. Infatti, tramite la metafora incarnata dal protagonista Jake Sully, Avatar s’impossessava di un corpo virtuale per esplorare dinamiche ulteriori di percezione, superando i limiti del personaggio, privo dell’uso delle gambe e quindi altrimenti costretto a limitarsi, spaziando esclusivamente con lo sguardo, come un normale spettatore. Davanti al corpo di Jake si apriva invece una visione prospettica di ampiezza tridimensionale che gerarchizzava corpi, volumi, forme e contesti. Erano brecce spalancate su un universo da esplorare che forzava la volontà dello spettatore, costretto a reagire a un gioco orchestrato da precisi stimoli.
La via dell’acqua agisce su un gioco già introdotto e quindi scoperto, privo di metafora di partenza e concentrato solo a confermare ciò che era stato abilmente seminato. La trama, malgrado i cinque accreditati tra soggetto e sceneggiatura, è solo un pretesto: l’unione tra Jake e Neytiri ha allargato la famiglia a quattro figli, di cui una adottiva ― la figlia di Kiri/Sigourney Weaver. Il perfido colonnello Quaritch, dotatosi anche lui di un avatar per poter scorrazzare indomito, arriva su Pandora con il suo battaglione di marine per vendicarsi di Jake. Un po’ esile per un film dalla lunghezza torrenziale, anche se i figli rappresentano un sicuro punto debole per l’ex caporale convertitosi alla vita dei Na’vi. Ciò che interessa Cameron non è certo la storia (anche Avatar, al netto di tutto il corredo programmatico che vi gravitava intorno, non era molto di più di un remake non dichiarato di Balla coi lupi o de L’ultimo samurai), quanto la pratica cognitiva che nasce dalla percezione corporea. E per fare questo allestisce un’altra volta un universo globale con l’intenzione di rendere tangibile l’immersione dello spettatore nella procedura sensibile del film. Che non è più semplicemente tale, ma nel frattempo si è trasformato ulteriormente in un evento (i tredici anni di attesa) che superando il concetto di visione prelude a un’autentica esperienza, durante la quale il corpo vive un rituale di assunzione all’interno del tessuto del racconto.
A differenza della stragrande maggioranza dei film stereoscopici (sì, anche di quelli migliori e relativamente recenti, come Polar Express di Zemeckis o Hugo Cabret di Scorsese), Cameron non spettacolarizza, ambienta e armonizza. I consueti oggetti che schizzano oltre lo schermo, proiettati sulla virtuale incolumità del pubblico, hanno solo la funzione di orientare l’attenzione dello spettatore, tenere vivo il canale comunicativo tra ecosistema fittizio (Pandora) e sala, trascinando quest’ultima all’interno della finzione, facendole smarrire resistenze e confini grazie al movimento istintivo dei corpi (una sorta di funzione conativa alla Jakobson). I rami della foresta che paiono comparire improvvisamente da dietro le proprie spalle, la pioggia che fornisce l’impressione di cadere copiosa subito prima dello schermo, i pesci che trasmigrano in avampiano, addirittura il plancton che galleggia in rilievo sono tutti elementi che offrono diritto di piena cittadinanza al pubblico, invitato ad abitare il mondo creato appositamente affinché lui vi dimori. Letteralmente. Le scintille che gli esplodono contro, il fango che pare inzaccherarlo, le fiamme libere delle esplosioni gli offrono invece gli impulsi di un effetto costantemente sollecitato, affinché diventi abituale nel plasmare uno stato di continua tensione fisica ed emotiva. Se si accetta il gioco, la prassi, nel corso delle oltre tre ore di durata, diventa talmente abituale da frantumare qualunque traccia di resistenza: l’acqua che penetra minacciosa nelle ridotte dimensioni di una capsula o il relitto di nave che incombe su Neytiri e sui suoi figli in fuga provocano perlomeno una fugace ricollocazione di ogni spettatore sul seggiolino della sala, traduzione fisica della fugace impressione di asfissia avvertita per un attimo. Così come anche il lieve capogiro che accompagna la soggettiva del secondogenito di Jake, Lo’ak (una delle rarissime soggettive del film), smarrito di fronte alla massa di oceano sulla sua testa, mentre tenta di ambientarsi nella nuova dimensione marina del Metkayina Reef.
Cameron, più che narrare, mostra e stimola, la sua è una ricerca instancabile del senso del meraviglioso, come le scene dell’esplorazione dei fondali, quella dell’eclissi periodica e l’incontro con i grossi cetacei dimostrano chiaramente. Nei tempi di Avatar, nel tentativo di proporre una nuova concezione percettiva delle immagini, assunte e non più solo viste, la sua è una celebrazione costante dell’epifania rivolta al futuro della ricezione ma che contemporaneamente esalta la magia delle origini, quando lo spettatore ancora vergine restava sconvolto davanti al treno entrato nella stazione di La Ciotat o quando i corpi degli omini di Méliès si agitavano improvvisamente privi di testa. È forse, questa, l’unica carta possibile da giocare contro lo strapotere delle piattaforme e dell’inedia in cui sono caduti gli spettatori della sala, ancora di più dopo i vari lockdown.
Una raccomandazione che è anche un monito: La via dell’acqua esiste come esperienza unicamente nella sua versione 3D, altrimenti è solo un film e neanche uno dei migliori.
Ambientato più di dieci anni dopo gli eventi del primo film, Avatar: La Via dell’Acqua racconta la storia della famiglia Sully (Jake, Neytiri e i loro figli), del pericolo che li segue, di dove sono disposti ad arrivare per tenersi al sicuro a vicenda, delle battaglie che combattono per rimanere in vita e delle tragedie che affrontano.