“Era a tal punto assorbito dai ricordi che non si rendeva conto dello scorrere del tempo”: questa frase di Nabokov, tratta da un suo splendido romanzo giovanile, riassume alla perfezione Babylon, la sua incandescente nostalgia, il suo desiderio di raccontare qualcosa che, sotto tutti i punti di vista, è stato, e forse può continuare ad essere, bigger than life. A Hollywood peraltro non hanno mai smesso di guardare al proprio passato, solo che qui, come nel film di Spielberg, a cambiare è il punto di partenza, rappresentato dalla visione in sala, vera e propria scena primaria del cinema che si confessa e mette a nudo. La commozione, lo stupore, l’incanto dello spettatore in sala sono il detonatore di un paziente lavoro di ricostruzione del passato del cinema e di celebrazione della sua gloria, che in Spielberg assume i tratti di un piccolo (per i suoi standard) film di famiglia e in Chazelle quelli della sontuosa ricostruzione d’epoca. In entrambi i casi, il cinema contemporaneo prova ad affermare la sua priorità a partire dal momento fatidico in cui ci sediamo, in sala si spengono le luci e sul grande schermo ha inizio la magia. In sala, non sul divano di casa, sul grande schermo, non sul piccolo: per fronteggiare la concorrenza, è necessario ricordare al pubblico che cosa, sulle piattaforme, non è (ancora) possibile trovare: un’emozione forte, un’intensità capace di travolgere le nostre difese emotive.
In fondo, è la stessa strada che sta percorrendo Cameron in Avatar, con la differenza che lì si guarda in avanti, qui all’indietro. Invece di pensare a come la tecnologia potrà perpetuare il miracolo, lo si recupera, quel miracolo, dagli archivi dell’infanzia, la propria o quella del cinema. In Spielberg siamo testimoni di una modalità apollinea di recupero della magia: folgorato sulla via di De Mille, vediamo come il piccolo Steven impari lentamente l’importanza del montaggio, la sua capacità di dare equilibrio e proporzione a quello che filma. Chazelle al contrario opta per una modalità dionisiaca, nel segno dell’eccesso (l’elefante) e dell’incontinenza (le sue feci). Sin dalla sequenza della festa, tutto obbedisce al principio dell’opulenza, dello spreco, della ridondanza. Troppo lungo il film, troppi gli episodi che non si raccordano bene all’insieme (ad esempio la storia del trombettista: ma forse qui Chazelle voleva restituire il jazz agli afroamericani, dopo che per La La Land molti non avevano gradito il fatto che quel tipo di musica fosse celebrata da un bianco), troppo lunghe le sequenze (appunto quella iniziale del party, in omaggio a Von Stroheim, maestro indiscusso dello spreco), sopra le righe l’interpretazione di quasi tutti gli attori principali. E soprattutto, troppo stile, dai virtuosismi della macchina da presa alle scorribande forsennate del montaggio, che non dà mai tempo alle sequenze di avere il crescendo drammatico che pure potrebbe caratterizzarle.
Forse si tratta semplicemente di un tentativo di ricalco, sul piano narrativo e stilistico, di un’epoca dove i limiti – al caos, all’opulenza, all’autodistruzione – esistevano solo perché si provava grande gusto ad infrangerli. Ma l’impressione è che sotto ci sia qualcos’altro, legato alla necessità di dimostrare che Hollywood ancora oggi può flirtare con l’eccesso, con la magniloquenza visiva, con la spudoratezza formale. La grandiosità di quell’epoca diventa allora non solo oggetto di rappresentazione, ma anche luogo di rivendicazione della propria impetuosa, indomita eccezionalità.
Nella Los Angeles degli anni 20 del Novecento, si incrociano le storie di alcuni personaggi, tra grandi ambizioni ed eccessi ancora più grandi. Hollywood è il regno della sregolatezza, ma sta vivendo un momento cruciale con il passaggio dai film muti a quelli sonori: una rivoluzione che sancirà l'ascesa di nuove stelle e il declino di vecchie glorie.