Denis Villeneuve

Blade Runner 2049

film review top image

Blade Runner e il suo film-replicante.

Non esisteva altro modo per ri-vedere quel mondo, per abitarlo di nuovo. Un replicante di nuova generazione che lo porta più in alto e più lontano, molto vicino al simulacro di realtà in cui viviamo. Che addirittura contiene Blade Runner, come un corpo perfetto, sintetico, post-umano può contenere la sua anima, l'identità più profonda. 

Quello era il mito, questa è la sua teologia. Un nuovo modello di replicante, che ha il compito di eliminare quelli vecchi, “difettosi”, troppo umani, s’imbatte in un miracolo. C'è un Figlio che rischia di sconvolgere l'ordine del mondo, nato da una madre che non poteva generare, inseguito da un aspirante padre-profeta che genera angeli sintetici, abbandonato per amore dal padre vero. Biblico e noir, a suo agio nel vuoto e nel silenzio più che nell'azione, capace di generare immagini e visioni di una bellezza e una complessità che in alcuni momenti tolgono il fiato. 

Se “l'altro” Blade Runner era sporco, ruvido, piovoso, questo invece è lucido, scintillante, a tratti quasi geometrico e astratto, come una danza di forme (e luci e colori) che generano idee più che luoghi o paesaggi, una realtà fantasmatica ma potente, solida, fatta di pixel e ferraglia (i set sono veri, il sogno inventato è più reale della realtà). Qui il brulichio umano, il mondo lurido sopravvissuto a sé stesso, la realtà dopo la fine della natura che l'ha generata, sembrano solo un sogno, un incubo, generato dal post-mondo sintetico, col suo sciamanesimo digitale. Sono ricordi (cinematografici) innestati.

Parafrasando una battuta del film, quando si ragiona sulla complessità, su ciò che ha un'anima e ciò che la deve conquistare, il film di Ridley Scott era un “C-G-A-T”, variazioni sul codice che ha prodotto l'umano, mentre questo è figlio del codice binario, una sequela mirabile di “0-1”. Ma lo è consapevolmente, dentro un cinema che a tratti assume le sembianze di un sabba estatico ed elettrico alla Refn (Villeneuve è un altro di quelli che hanno sotterrato il postmoderno), con una sensibilità che ha qualcosa di alieno, sfuggente, in anticipo sui tempi e sui mondi che saranno.

Attenzione, quindi, a non equivocare la boutade sul “film-replicante”. Denis Villeneuve non replica nulla, non omaggia, non vive di luce riflessa, non si accontenta di pascolare nei dintorni del film-culto, vampirizzandone temi e motivi. Uno degli aspetti più stupefacenti di questo film, sta proprio nella capacità di creare un universo che c'è, esiste, si materializza davanti a noi, vero, credibile.

È cinema maiuscolo, titanico, e pure medianico. Immagina un futuro possibile, come già faceva il suo progenitore, rendendolo reale. E intanto ragiona sul fantasma della realtà in cui viviamo-vivremmo-vivremo, su ciò che siamo e pensiamo di ricordare, sull'imprescindibile illusione dell'amore, sulla fiducia in sé stessi (quello che ci hanno insegnato a credere) e la fede in qualcosa di più grande (un'idea, un'etica, un'utopia, un miracolo).

Il replicante, sempre più umano, diventa quasi più che uomo, e inevitabilmente deve confrontarsi col suo mito d'origine, per ritrovare il suo limite, e quindi la sua reale grandezza. Il film d'origine si intreccia allora col film-replicante, uno si specchia nell'altro, e ne escono entrambi trasfigurati. E questo al di là dei limiti di scrittura dell'opera di Villeneuve. Al di là dello stile algido che rischia di congelare le emozioni (ma le emozioni covano sotto la superficie digitale, pulsano ed emergono nel finale).

Non è certo un caso che Los Angeles sia un paesaggio post-apocalittico in cui la memoria – pre-blackout, prima che tramontasse l'illusione del controllo totale – è conservata in teche labirintiche, come una sterminata audio-videoteca-libreria. Per non parlare dell'incontro fatale nella terra di nessuno in cui il sopravvissuto vive tra gli ologrammi di Marilyn, Elvis e Frank Sinatra.

Ecco un altro di quei registi che stanno portando il cinema “da un'altra parte”, con la forza del loro stile libero, personale, leggibile ma radicale. Forse non è un caso che tutti loro (dai Lynch ai Refn, dai Malick ai Nolan) abbiano bisogno di fondare il loro incandescente materiale visivo su Padri e Figli, angeli e demoni, mitologie ancestrali, Madri Natura o maternità digitali.

Blade Runner 2049
Usa, 2017, 163'
Titolo originale:
Blade Runner 2049
Regia:
Denis Villeneuve
Sceneggiatura:
Hampton Fancher, Michael Green
Fotografia:
Roger Deakins
Montaggio:
Joe Walker
Musica:
Benjamin Wallfisch, Hans Zimmer, Jóhann Jóhannsson
Cast:
Ana de Armas, Dave Bautista, Harrison Ford, Jared Leto, Robin Wright, Ryan Gosling
Produzione:
16:14 Entertainment, Alcon Entertainment, Columbia Pictures, Scott Free Productions, Thunderbird Entertainment, Torridon Films Warner Bros.
Distribuzione:
Warner Bros Italia

L'agente K della polizia di Los Angeles scopre un importante segreto che potrebbe minare le sorti dell'intera società, gettandola irrimediabilmente nel caos. K si mette alla ricerca di Rick Deckard, un ex blade runner scomparso da oltre trent'anni.[3]

poster