Per molti aspetti è, questo di Singer, un film trascurabile, che non evita nessuna delle trappole proprie del genere biografico applicato alle band: anonimato, celebrità, difficoltà nel gestirla, sciolgimento. Corre però sottotraccia un elemento che già affiorava alla superficie dell’altro campione d’incassi di questi mesi, A Star is Born: la messa in scena del concerto come luogo di condivisione euforica ed estatica di un evento. In questo film il lento di movimento di macchina che pedina Mercury verso il palco del Live Aid termina un atto prima che questi arrivi in scena, innescando poi il lungo flashback che ci racconta l’ascesa e la caduta del gruppo, per essere ripreso alla fine, al momento dell’inizio del contributo al concerto della band. La cui presenza sul palco viene quindi ad acquistare un’enfasi particolare, soprattutto per il rilievo dato al nesso, quasi magnetico, tra la performance di Mercury e l’entusiasmo degli spettatori. Anche A Star is Born celebra, nella parte iniziale, il medesimo momento, al punto che verrebbe da chiedersi se il cinema mainstream non stia cercando, in queste storie di declino e scomparsa del musicista da palco, di dirci qualcosa circa il proprio destino, assediato dalle piattaforme di visioni domestiche e dalle nuove forme di spettatorialità solipsitica che ne derivano.
La celebrazione del concerto – come forma condivisa di un evento il cui impatto emotivo è determinato dalla compresenza del pubblico nello stesso luogo, dal fatto di essere lì tutti insieme – diventa allora il modo attraverso cui il cinema omaggia la propria stessa capacità di orientare – anno dopo anno, film dopo film – i sentimenti degli spettatori dopo averli attirati in sala e costretti alla promiscuità emotiva. Con tanta nostalgia ed un filo di apprensione, perché nessuno può dirsi, oggi, certo che questa dinamica abbia un futuro, in un mondo delle spettacolo dove le forme mediate di partecipazione stanno prendendo gradualmente il sopravvento. Non è un caso che il musicista di Star is Born sia soppiantato da una cantante costruita e modellata dai media, la cui stardom passa dunque attraverso luoghi alternativi a quello del palcoscenico. Quanto al Freddie Mercury di Bohemian Rhapsody, il montaggio fra la sua performance e il primo piano dei telefoni che squillano – segno che le donazioni al fondo per l’Africa voluto da Bob Geldof stanno aumentando di numero – rappresenta qualcosa di più di un omaggio alla cronaca. Ogni telefonata – quale forma distante, remota e probabilmente domestica di partecipazione all’evento – è una pugnalata inferta all’animale da palcoscenico, ovvero all’essenza di uno spettacolo che non può prescindere dalla prossimità fra l’artista e il suo pubblico.
La storia dei Queen, della loro musica e del loro frontman, Freddie Mercury, che sfidò gli stereotipi e infranse le convenzioni, diventando uno degli artisti più amati al mondo. Il film ricostruisce la meteorica ascesa della band attraverso le sue iconiche canzoni e il suo sound rivoluzionario, la sua crisi quasi fatale, man mano che lo stile di vita vita di Mercury andava fuori controllo, e la sua trionfante reunion alla vigilia del Live Aid.