Francia, prima metà del ‘700: la diciassettenne Suzanne viene costretta a monacarsi, pur non avendo alcuna vocazione, da una famiglia che motiva il gesto con una crisi economica solo presunta. La ribellione della giovane novizia all’autorità temporale della Chiesa, il suo rapporto individuale con la trascendenza, il suo desiderio di una vita normale si scontrano con il sadismo, l’ipocrisia, la sorda corruzione delle istituzioni religiose in cui si trova forzata.
La religieuse, romanzo ovviamente polemico di Denis Diderot, uscito a episodi tra il 1780 e il 1782, e in volume nel 1796, aveva ispirato già una versione cinematografica sobria e rispettosa di Jacques Rivette, funestata da un iter censorio tortuoso e tormentato: si trattava, in quel caso, dello specchio di un decennio che si stava interrogando in maniera radicale, ricorrendo a un’opera letteraria figlia di un’epoca altrettanto radicale.
Le ragioni di questa nuova, doviziosa e fedele ripresa da parte di Guillaume Nicloux sono meno afferrabili, se non come risposta a qualche recente rigurgito ultrabigotto in una Francia che normalmente diamo per laicissima. Il regista e scrittore francese ha una certa notorietà, soprattutto in patria, per alcuni romanzi e pellicole dalle ambizioni neo-melvilliane, ma la sua Religieuse, presentata in concorso allo scorso Festival di Berlino, sembra cercare vie espressive differenti.
La ricostruzione ambientale, filmata in gran parte con luce naturale, o in ogni modo naturalistica, con un’attenzione, attraverso diversi modelli pittorici (da Philippe de Champaigne a Chardin), all’esattezza di colori e materiali; un sound altrettanto adesivo ai dettagli, ai fruscii, alle trame sonore; la completa assenza di musica extradiegetica e la secchezza inattesa di certe inquadrature (soprattutto certe soggettive): sono tutti marchi di un’ambizione autoriale servita solo in parte dal cast.
Se Pauline Etienne è misurata (e credibile) nel ruolo di Suzanne (che per Rivette fu Anna Karina), il pedale sfugge nella caratterizzazione di almeno due delle comprimarie/antagoniste: Louise Bourgoin, alla quale il velo scopre il volto troppo modernamente bello e polposo (o rimpolpato?) è una superiora fuori cronologia, oltre che fuori registro; più guittescamente accorta, ma al tempo stesso debordante, la badessa dagli slanci saffici incontrollabili, incarnata da una Isabelle Huppert alla quale gioverebbe dire un no, ogni tanto. Nicloux ritaglia per Lou Castel, più crepuscolare che mai, la parte del Barone di Lasson, padre naturale di Suzanne.
XVIII secolo. Suzanne, sedici anni, è costretta dalla sua famiglia a prendere i voti, mentre la sua aspirazione è vivere nel “mondo”. Fra le mura del convento deve confrontarsi con l’arbitrarietà delle gerarchie ecclesiastiche: madri superiore a volte benevole, a volte crudeli o colpevoli di troppo amore. La passione e la forza che animano Suzanne, le permettono di resistere alla barbarie del convento e perseguire il suo unico scopo: combattere con tutti i mezzi per riconquistare la sua libertà.