Durante l’indimenticabile piano-sequenza iniziale de I protagonisti, Buck Henry proponeva con apprezzabile gusto farsesco all’executive Tim Robbins di girare il sequel de Il laureato, interpretato dagli stessi attori 25 anni dopo. Gianluca Curti e Toni D’Angelo decidono invece di realizzare il seguito del cult movie di Fernando Di Leo Milano calibro 9, tratto da Scerbanenco, ben 47 anni dopo. Gastone Moschin non c’è più e Marco Bocci interpreta il figlio avvocato messosi nei pasticci perché ha fatto sparire cento milioni di euro della ‘ndrangheta; Barbara Bouchet, che avevamo lasciato insanguinata e tramortita sulla moquette bianca dopo aver preso in soggettiva uno dei più grandi sganassoni di tutti gli anni Settanta, è la madre di Bocci, mentre Mario Adorf è sostituito da Michele Placido nei panni di Rocco Musco, appena uscito di prigione dopo aver scontato la condanna per aver vendicato la morte di Moschin/Ugo Piazza nel finale del film di Di Leo.
D’Angelo parte dall’omaggio ma non ne diventa schiavo, limitandosi a fare riferimento all’illustre predecessore attraverso la memoria dei personaggi, visti in effigie nei titoli di testa, e con qualche ammiccamento qua e là, come nell’inquadratura finale sulla brace della sigaretta di Marco Bocci/Fernando Piazza, che potrebbe alludere tranquillamente alla sua fine, identica a quella del padre 47 anni prima, se non si attendessero anche tutti i titoli di coda. Ciò nonostante, Calibro 9, nella sezione Fuori concorso del Festival, non obbliga alla conoscenza del film di Di Leo, ma contestualizza la materia rispetto al nuovo millennio, utilizzando il substrato noir per andare oltre il genere, sconfinando nell’action, al quale rimandano gli inseguimenti, gli scontri a fuoco e la tendenza a saltare da una location all’altra come farebbero James Bond o Jason Bourne, se solo decidessero di passare da Toronto a Francoforte o da Anversa fino a Reggio Calabria. La frode telematica sostituisce la valigetta con il contante degli anni Settanta: il crime di adesso parla solo di cifre, ne segue la scia mostrandole su un display ma tende a non mostrare una sola banconota, se si eccettua la scena in cui Bocci inserisce con la forza qualche decina di euro nel taschino di Musco per umiliarlo, appena scontata la sua pena.
Eppure, nel clima tutto italiano in cui gran parte della criminalità organizzata mostra il retaggio di una tradizione secolare, qualunque vicenda che intenda attualizzarsi deve sempre negoziare con il fango dell’elemento vernacolare e con la densità viscosa dei legami di sangue. Calibro 9 spazia continuamente sul paradosso rappresentato da questi due poli, tra il futurismo di una truffa che lavora sulla smaterializzazione (delle cifre e dei personaggi coinvolti) e le associazioni a delinquere fondate sul principio della famiglia, su tradizioni ataviche e su tribunali della malavita che mentre pasteggiano a soppressata e ‘nduja si confrontano direttamente con le pose ufficiali dei potenti del mondo riuniti nel G20. È il legame di sangue che ne causa lo spargimento ed è il tradimento che lacera le ferite: il film di D’Angelo abbonda di colpi di scena che ribaltano le situazioni apparentemente assodate, sovvertendo i principi della tensione con rivelazioni che fanno sterzare continuamente la scansione degli eventi del racconto e fanno sì che tradimento e salvezza siano due facce di una stessa medaglia pronte a mostrare in qualunque momento la loro fatalità.
Malgrado le dinamiche del film di genere siano attuate con una certa abilità, talvolta Calibro 9 pecca per qualche incongruenza (a quale sospensione dell’incredulità bisogna abbandonarsi per poter accettare che l’accento di Ksenia Rappoport sia plausibile come membro di una famiglia calabrese?) e per alcuni stridenti eccessi lirici, primo fra tutti il momento in cui Bocci e la stessa Rappoport, asserragliati sotto una gragnola di colpi nemici, si abbandonano a un’impetuosa pomiciata commentata da una musica passionale, mentre intorno a loro le schegge dei vetri infranti dai colpi delle armi da fuoco volteggiano al ralenti, impegnate in una coreografia complice e surreale.
Siamo solo a lunedì, ma già adesso la scena si candida ad essere uno dei momenti scult di questa edizione del Festival.
Cento milioni di euro spariscono a seguito di una frode telematica. La principale sospettata è una cliente di Fernando Piazza, avvocato milanese figlio di Ugo, noto criminale ucciso anni prima. La madre di Fernando, Nelly, ha lottato tutta la vita perché il destino del figlio fosse diverso da quello del padre, ma ora Fernando si trova in pericolo. La società alla quale sono stati sottratti i soldi è infatti una copertura della 'ndrangheta, intenzionata a vendicarsi e pronta a far scoppiare una guerra tra cosche. Un omaggio al cult Milano calibro 9 (1972) di Fernando Di Leo, consacrato dalla presenza dell'icona Barbara Bouchet.