C’è una canzone dei Sonic Youth che ha un testo brevissimo: «We all hope / To signal kin / Rays of gold / Now rain on tin / Gather round / Gather friends / Never fear / Never again»; poche parole per dire che in fondo, per sopravvivere, si deve semplicemente cercare di non avere più paura. Don’t Worry (titolo abbreviato rispetto all'originale Don't Worry, He Won’t Get Far on Foot), il film dedicato alla vita del cartoonist tetraplegico John Callahan, che Gus Van Sant finalmente arriva a realizzare dopo oltre vent’anni dalla prima idea sul soggetto, è anche e soprattutto un film su questo.
Non è un caso infatti che, dopo molte stesure e rimaneggiamenti con vari interventi, arrivi a decidere di concentrarsi sostanzialmente sul recupero di Callahan dall’alcolismo, sul suo percorso per riuscire – in qualche modo – a non avere più paura. E non è un caso (forse) che si apra su un primo piano di Kim Gordon, perfetta, elegantissima, dura e insieme inquieta (come sempre) che – nei panni di Corky – racconta con voce calma la sua storia di dipendenza e di sprofondamento nel buio al gruppo di recupero sostenuto dallo “sponsor” (cosi lo chiamano) Donnie, il ricchissimo benefattore interpretato da Jonah Hill che aiuterà anche John nella sua rinascita. Storie di buio, di solitudine, di paura. Ma anche storie che prefigurano la possibilità di smettere di averne.
Anche per questo motivo, un brivido in più arriva se si pensa al legame che con questo soggetto, con questo film e con questo autore aveva Robin Williams (al quale il film è dedicato e che per primo aveva acquisto i diritti per mettere in scena la biografia di Callahan). Uno che quella paura, forse, non è riuscito a fronteggiarla. Chissà.
Sono molte ed evidenti le implicazioni emotive di Van Sant con questa storia. E forse proprio da lì deriva anche il carattere del film che della lunga gestazione (e sedimentazione) si porta dietro i segni nella scelta forte che opera rispetto al soggetto di un biopic, quella di dedicarsi solo a una piccola fondamentale parte della vita di Callahan che nel libro occupa appena pochi capitoli: la sua liberazione dalla dipendenza.
Don’t Worry (che prende il suo titolo originale dalla battuta di una famosa vignetta di Callahan) sta dunque perfettamente dentro al cinema di Van Sant anche e proprio per il nitore e la sincerità delle sue scelte. Come quella di optare per l'assoluta esposizione di ciò che racconta, affidandolo essenzialmente alla misura della messa in scena e alla bravura degli attori (neanche a dirlo Joaquin Pohenix su tutti). Avanti e indietro, nel passato, nei ricordi, nei traumi in cui trovare, vanamente, una giustificazione per se stessi; indietro e avanti, intorno, alla ricerca della propria identità, di un punto di riferimento, di qualcosa che basti senza dare un senso, perché di senso mica ce n’è. Avanti e indietro, dentro la grana spessa di un digitale che si traveste e si sporca portando il film dalle parti della testimonianza. Quello che sembra fare insomma Van Sant, è una scelta che alla fine sta forse semplicemente dalle parti della pacificazione con quella materia tanto travagliata, una risoluzione che passa per la decisione di far affiorare tutto e confidarlo all’evidenza. Che poi, che male c’è.
La storia vera del celebre fumettista John Callahan rimasto paralizzato dopo un incidente automobilistico all’età di 21 anni. L’incidente, che poteva segnare la fine della sua vita, si rivelerà l’inizio di un nuovo meraviglioso percorso.