La ventunenne Wilma Montesi, aspirante attrice e occasionale comparsa a Cinecittà, venne trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica l’11 aprile 1953, due giorni dopo una festa a cui avevano partecipato diverse personalità dell’alta borghesia romana, tra cui Piero Piccioni, jazzista figlio dell’allora ministro degli esteri Attilio. Da allora, il corpo riverso e il nome di Wilma Montesi hanno rappresentato l’altra faccia, quella vera forse, del mondo dello spettacolo romano e del cinema italiano tutto: la sua seduzione, il suo inganno.
La protagonista dell’ultimo film di Saverio Costanzo, che di nome fa Mimosa (a interpretarla è Rebecca Antonaci) e si ritrova anche lei a Cinecittà, portata a forza su un set e trascinata in una notte a zonzo per Roma e per il litorale con una diva e un divo americani impegnati nelle riprese di un peplum, arriva finalmente a fare giustizia della povera Montesi nel solo modo che il cinema conosce per emendare la realtà: replicandola e sostituendola un po’ alla volta.
Scritto dallo stesso regista, il film non nasconde la sua natura duplice, il suo gioco di specchi tra spettatore e schermo, le sue porte che si aprono e si chiudono, le sue parrucche sfilate e i suoi trucchi lavati, e si pone fin dalla prima sequenza come un gioco dichiarato: a un certo punto Mimosa si sovrappone pure all’immagine del corpo riverso di Wilma, in piedi contro uno schermo.
Nel film siamo nei giorni successivi al ritrovamento del cadavere, ma nella villa in cui si tiene un’altra “festa elegante” nessuno sembra farci caso. Nessuno ha tempo, voglia e bisogno di guardare la realtà. Del resto, nelle riprese del film americano che si gira a Cinecittà, ambientato nell’antico Egitto, gli occhi dei prigionieri sono mangiati dai rapaci e chi sta a guardare è costretto a farlo per «osservare la propria paura», come dice la perfida regina protagonista.
Ed è strano accorgersi di come nel corso del film Costanzo arrivi a identificare una possibile purezza del cinema solamente negando ogni forma di recita e recitazione. In Finalmente l’alba il cinema, più che essere visto, si vive (ad esempio si canta dal vivo la canzone di un celebre musical citato da tutti) e nel finto film mostrato nella prima sequenza è il sacrificio di una vita (di Wilma Montesi?) a salvarne un’altra (anche se in questo caso viene da porsi un dubbio storiografico: nel 1953 si giravano ancora, prima della ripresa a fine decennio, opere ambientate durante l’occupazione di Roma, essendosi esaurita da un po' l’onda del neorealismo?).
E non è certo casuale che nella scena chiave del film, durante la festa a cui la povera Mimosa è trascinata controvoglia (lei che è figlia di gente semplice e come Wilma è fidanzata con un poliziotto), è un intenso e inconsapevole momento di silenzio della protagonista – chiamata a interpretare anche lei un ruolo e investita di una seconda personalità che non le appartiene: una poetessa svedese di nome Sandy – a generare emozione e pianto, scambiato da tutti i presenti (attori, attrici, pittori, musicisti, dame e signori) per una delle più grandi interpretazioni mai viste…
Viene da chiedersi, insomma, quali fossero le ragioni di Saverio Costanzo (che ha dedicato il film al padre) nel realizzare un’operazione ambiziosa come Finalmente l’alba, in cui la città della futura "dolce vita" è già immersa in una melma di bugie e illusioni, ma dove la forma – al contrario di quanto succede nel film di Fellini – non è mai chiamata a prendersi carico della tante, troppe evidenze simboliche della trama e, anzi, in più momenti scade in un’incuria stilistica e in una meccanicità narrativa difficili da accettare per un prodotto comunque tra i più costosi del recente cinema italiano.
Mimosa è una altra Wilma Montesi, chiaramente, ma il suo destino scarta rispetto a una storia già scritta. È un volto anonimo, non conforme ai canoni di bellezza dell’epoca, e proprio per questo è scelta dall’attrice Josephine Esperanto/Lily James e finisce per sedurre il compagno di set Sean Lockwood/Joe Keery (ma va detto che l'origine del viaggio di perdizione è narrativamente un po' fragile): il giorno dopo la notte potrebbe vivere una nuova vita, oppure tornare a quella di prima, consapevole di un sogno che la realtà ha scalfito.
Costanzo, però, non fa mai capire chi sia veramente Mimosa, e a quale rinascita o evoluzione della donna italiana la sua parabola dovrebbe far riferimento, specie al termine di una lunga e scontata sequenza finale che ripete e al tempo stesso ribalta il faccia a faccia fra la ragazza di borgata definitivamente cambiata e la star del cinema senza più maschera... Forse – ma è una suggestione che il film non mette a tema – in Mimosa c'è la vera donna del neorealismo dell’epoca: un’altra donna mai più ripresa dal cinema italiano che è stata attrice, poetessa, leonessa. Come le protagoniste di Siamo donne, film a episodi con protagonista Alida Valli, in Finalmente l'alba interpretata proprio da Alba Rohrwacher, moglie del regista. L'anno era il 1953...
Roma, anni Cinquanta. Una ragazza va a Cinecittà per fare un'audizione come comparsa in un kolossal americano e viene spinta in una notte quasi infinita durante la quale scoprirà sé stessa.