Da sempre l’essere umano è in cerca della felicità. Forse è davvero l’unico desiderio che mette in moto le nostre giornate, le nostre vite. C’è chi non se ne cura, chi ne ha troppa e quindi si stanca, chi la sfiora ma non la raggiunge, chi non sa nemmeno cosa sia e chi l’ha perduta. Ha preso forme molto diverse nel corso delle epoche ed è un oggetto tanto misterioso quanto variabile: si adegua ai tempi. Oggi per alcuni consiste in una stabilità economica, per (molti) altri invece è una questione di sopravvivenza e di speranza in un futuro migliore. E se effettivamente tutti la cercano e pochi la trovano, buona parte di noi si impegna a definirla, studiarla e conoscerla meglio per poi afferrarla.
Alessandro Rak e il suo team di animatori, già quattro anni fa si erano messi al lavoro per provare a disegnarla, la felicità (con il film L’arte della felicità, per l’appunto), ma è con il loro ultimo lavoro che riescono effettivamente a comporre sull’argomento un affresco compatto e intelligente.
Gatta Cerentola prende chiaramente le mosse dalla classica favola di Giambattista Basile riproponendola nei suoi caratteri più distinguibili (la scarpetta, la matrigna, le sorellastre) ma ambientandola in una Napoli cupa e surreale, una città disillusa dalla malavita che serpeggia ovunque e nello specifico del racconto dall’omicidio di un magnate dall’animo nobile che sognava di ridarle nuova vita.
In questo teatro sudicio e tenebroso, si intrecciano storie di mafiosi, di prostitute, effemminati e assassini: una cornice tutt’altro che fiabesca o infantile, dai tratti invece futuristici e sinistri (il film è ambientato quasi interamente all’interno di una nave iper-tecnologizzata) che non teme di mostrare la propria bellezza decadente, tra scenari arieggiati, atmosfere da anime e i toni leggiadri dell’estetica color pastello.
Il film dà vita a personaggi sciupati e stanchi, ormai privi della speranza infantile che un tempo apparteneva loro, disillusi da un mondo (prima ancora che da una città) in cui l’unica via possibile per rimanere a galla sembra quella di sporcarsi le mani. Una stasi estenuante e imponente (simboleggiata dalla grande nave ancorata al porto), figlia di un passato florido oggi ricordato solamente come occasione sprecata.
Per evitare il collasso, per tornare a sperare di essere felici, occorre rivolgersi proprio a quel passato glorioso e dimenticato. Come l’orfana adolescente Cenerentola, che nel corso del film si oppone al destino ingiusto che l’aspetta, aiutata dall’ologramma del suo defunto papà. Gli adulti, avari e meschini, non possono far altro che lasciare spazio ai giovani sognatori, accompagnandoli nel loro percorso e spronandoli a dialogare con la memoria e così restare in qualche modo per sempre bambini. Questa, forse, è l’alternativa al caos del mondo futuro, questa l’ipotesi di felicità di cui oggi c’è bisogno.
Banale, forse. O piuttosto, facile a dirsi e difficile a farsi. Ma i film d’animazione, anche quando concepiti e realizzati soprattutto per gli adulti, come questo Gatta Cenerentola, hanno dalla loro la forza della semplicità morale; la chiarezza della favola che si adatta alla realtà delle cose.
Cenerentola è cresciuta all’interno della Megaride, un’enorme nave ferma nel porto di Napoli da più di 15 anni. Suo padre, ricco armatore della nave e scienziato, è morto portando con sé nella tomba i segreti tecnologici della nave e il sogno di una rinascita del porto. La piccola vive da allora all’ombra della temibile matrigna e delle sue perfide sei figlie. La città versa ora nel degrado e affida le sue residue speranze a Salvatore Lo Giusto, detto ‘o Re, un ambizioso trafficante di droga che, d’accordo con la matrigna, sfrutta l’eredità dell’ignara Cenerentola per fare del porto di Napoli una capitale del riciclaggio. La nave, infestata dai fantasmi-ologrammi di una tecnologia e di una storia dimenticate, sarà il teatro dell’intera vicenda e metterà in scena lo scontro epocale tra la miseria delle ambizioni del presente e la nobiltà degli ideali del passato. Il futuro della piccola Cenerentola e della povera città di Napoli sono legati a uno stesso, sottilissimo, filo.