Sono molti gli interrogativi che suscita la visione di Gigi la legge, il quarto film di Alessandro Comodin (quinto, se si considera anche il corto La febbre della caccia) e il primo girato in digitale. A cominciare dall’impossibilità di sistemarlo in un casellario di genere, sospeso com’è in un limbo astratto dove realtà e finzione («qui è tutto vero e tutto falso insieme», ha detto il regista), flebili tracce narrative e prosa documentaria (è interpretato da attori non professionisti liberi d’improvvisare su un canovaccio di situazioni giustapposte), formalismo da neo-avanguardia e strategie postmoderniste della digressione e della divagazione si stringono in un unico abbraccio.
L’eponimo protagonista del film (Pier Luigi Macchia, zio di Comodin) è un vigile della campagna friulana, figura a metà tra le petulanti maschere dell’atellana e il buon selvaggio di Rousseau, chiacchierone e impulsivo ma capace di slanci di una generosità quasi esuberante, antieroe indiscreto che si muove in un contesto provinciale dominato da un apatia monotona e soporosa spezzata da qualche evento straordinario: nello specifico, il ritrovamento – lasciato fuoricampo – dei resti di una persona investita sui binari, probabilmente suicida. Uno spazio, ripreso attraverso long take e piani sequenza spesso in camera car, che si sviluppa specialmente in orizzontale, interrotto da pochi elementi che lo tagliano diagonalmente (il pietrisco della massicciata, l’intrico quasi dantesco delle piante del giardino di Gigi) e popolato da personaggi (spesso semplicemente evocati nello spazio chiuso dell’abitacolo dell’autopattuglia) che acquistano senso e importanza solo in relazione al protagonista: dal petulante superiore soprannominato «il Fagiano» alla giovane collega Paola con cui Gigi intrattiene lunghe conversazioni via radio non prive di malizia o sottintesi, dall’arrogante vicino di casa a un misterioso ciclista che potrebbe nascondere inquietanti segreti.
A prima vista parrebbe di trovarsi di fronte all’ennesimo scandaglio provinciale intrappolato tra le panie del grottesco marionettistico-parrocchiale, in cui prevalgono personalità stravaganti e mentalità chiuse. La verità, però, è che fin dallo strambo incipit bucolico e notturno Comodin insegue un registro da fantasticheria allucinata, a metà tra Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni e Le avventure di Guizzardi di Gianni Celati, dove questa miseranda Italia fuori dal Tempo e dalla Storia diventa il luogo di un’immersione satirico-surreale in un microcosmo apparentemente immutabile ma in realtà pieno di oscure angosce, scorci cosmici (il pedinamento notturno in un giardino che sembra una foresta, materializzazione biologica di un inconscio condiviso) e ricordi dolorosi (il finale). Così, anche il ricorso estensivo al dialetto non è uno stratagemma mimetico post-pasoliniano ma la costruzione di una sostanza armonico-fonetica che dà concretezza a un universo tanto reale quanto completamente artificiale («la lingua è una parte essenziale della nostra identità», ha ricordato lo stesso regista). Perciò, se Comodin (forse fin troppo didascalicamente) accorda un registro di osservazione antropologica e zavattiniana (con la macchina da presa che diventa un vero e proprio personaggio agente) a improvvise spezzature onirico-fiabesche, il suo protagonista interpreta e costruisce il mondo a sua immagine (proprio come un suo illustre antecedente letterario: il mesto collezionista di francobolli del Serpente di Malerba), tanto che l’oratorio di voci che lo circonda potrebbe tranquillamente essere il parto della sua fervida fantasia o l’ombra di un sogno a occhi aperti.
Il motivo di maggiore interesse del film è proprio in questa perpetua oscillazione tra opposti apparentemente contraddittori e forse impossibili da conciliare se non attraverso la sintassi liberissima delle immagini e la forza quasi automatica del dispositivo. Al di là di ogni pretesa di compiutezza, Comodin trova un punto d’intersezione tra queste spinte antitetiche in una specie di esplorazione del quotidiano che diventa mitica e picaresca a dispetto della sua immobilità quasi ermetica (l’itinerario del protagonista è poco più di un fluire ciclico e ripetitivo di situazioni e incontri). E che trova in una figura contemporaneamente mercuriale e vitalissima come quella di Gigi, specie di «idiota» dostoevskiano trapiantato nella dolcezza placida e nelle caligini silvane del nordest, lo specchio di un’umanità schietta e leale, disponibile e generosa ma costretta a fare i conti con una realtà sempre più difficile da comprendere, sintetizzare, includere in una prospettiva di senso.
Gigi fa il vigile in un paese di campagna dove sembra non succedere mai niente. Un giorno, però, una ragazza si suicida, gettandosi sotto un treno. Lì comincia un’indagine su una misteriosa serie di suicidi che si consuma in uno strano mondo di provincia in bilico tra realtà e fantasia.