«I can see you need to let the wolf out a little. They all do out here».
«Hai bisogno di liberare il lupo per un po'», dice un vecchio cacciatore indiano all'uomo che sta braccando la propria moglie. La donna ha ingaggiato uno scrittore esperto del comportamento dei lupi perché stermini il branco che, racconta, le ha rapito il figlio che invece è stata lei stessa a strangolare.
Ma perché lo ha fatto? Perché il marito (da mesi impegnato in missioni di guerra in Iraq) l'ha lasciata sola troppo a lungo nello sperduto villaggio dell'Alaska in cui entrambi sono cresciuti? Perché il bambino è il frutto di un rapporto incestuoso tra fratelli (o addirittura gemelli), come sembrano suggerire alcuni indizi sparsi nel film («Lo conosco da una vita intera», racconta lei all'uomo dei lupi, «non ho un ricordo in cui lui non ci sia»)? O perché il buio che avvolge la sua regione per larga parte del giorno l'ha alla fine posseduta, spingendola a liberare il lupo una volta di troppo («Ha un'idea di cosa ci sia fuori da quelle finestre? Quanto nero ci sia? E come ti entra dentro?»)?
La forza di Hold the Dark – distribuito su Netflix dallo scorso settembre, diretto da Jeremy Saulnier su una sceneggiatura del suo attore feticcio, Macon Blair, basata sull'omonimo romanzo di William Giraldi – sta proprio nella capacità, da parte di Saulnier, di saper “tenere” questo buio (una delle traduzioni possibili di un titolo splendidamente evocativo), di riuscire a modularlo e distillarlo senza mai sognarsi di scioglierlo.
Calandosi nel microcosmo di una comunità superata dalla Storia, abbandonata da qualsiasi ipotesi di progresso, in cui sopravvivono credenze ancestrali e dove il resto del mondo è un miraggio tutt'al più orecchiato, Saulnier sa creare una tensione asfissiante senza fornire risposte né rassicurazioni, sa raccontare senza sciogliere un giudizio e mettere a fuoco i personaggi attraverso laconici scambi di battute che ne definiscono il contesto, o con brevi, fulminanti scene che stabiliscono un codice morale (il marito della protagonista che, a Falluja, sorprende un suo commilitone stuprare una donna del luogo e lo uccide brutalmente).
E, oltre a sostenere questo buio, il regista sa anche quando liberare i propri lupi. Lo fa in un'impressionante sequenza di quasi venti minuti, una sparatoria che sembra convogliare tutta la violenza contenuta nel suo cinema e liberarla in un'Apocalisse della ragione che lascia attoniti ma che, paradossalmente, apre la strada a un finale di rinascita: dove è giusto che la vendetta soccomba all'amore e alla comprensione e le parole si facciano viatico per la ricostruzione di un rapporto a pezzi.
«Cos'è successo?», chiede la figlia dello scrittore al padre ricoverato in ospedale con cui non parla da anni, «Te lo racconterò», risponde lui.
Russell Core, un naturalista in pensione e in passato esperto studioso del comportamento dei lupi, raggiunge l'Alaska su invito di una donna che gli ha chiesto di aiutarla a ritrovare il figlio scomparso, forse rapito e sbranato da un branco di lupi. Il ritorno del marito della donna, partito per la guerra e ferito sul fronte, complicherà le cose e Core si ritroverà coinvolto in un inquietante mistero.