Uno dei libri più belli letti nel 2016, forse il più bello, è stato Tra me e il mondo di Ta -Nehisi Coates (Codice Edizioni). Mi è stato consigliato dopo una chiacchierata su The Birth of a Nation, il film di Nate Parker che racconta la vera storia di Nat Turner, uno schiavo nero, profondo conoscitore della Bibbia e fervente predicatore, che nella Virginia del 1831 guidò una rivolta sanguinosa e nel sangue soffocata.
Il film di Parker racconta anche di come, dopo la sua impiccagione, il corpo di Turner fu smembrato e distrutto, per evitare che le sue spoglie diventassero oggetto di culto e venerazione, considerata anche la matrice fortemente religiosa della rivolta da lui guidata e il carisma che emanava. Curioso, a pensarci: perché se il film è così esplicitamente fisico, e racconta un esito di questo tipo, il libro di Ta-Nehisi Coates pone il più chiaro e forte dei suoi accenti proprio sul corpo di chi, nell'America di ieri e di oggi, ha la pelle nera.
Tra me è il mondo – che è un saggio sotto forma di lettera aperta dell'autore a suo figlio, ma anche il racconto, di potenza e lingua romanzesca, di una vita e di un pensiero – parla infatti della paura dell'autore (paura di tutta una vita e di tutta la popolazione afroamericana) di "perdere il proprio corpo".
Quel corpo nero raccontato come sempre vulnerabile, che deve essere difeso dall'imprevedibilità ineluttabile della violenza bianca, del suo braccio armato, di quelle forze dell'ordine che dovrebbero servire e proteggere ma che troppo spesso picchiano e uccidono. Senza motivo, senza ragione: solo perché, da qualche parte nel loro inconscio (nel migliore dei casi), il corpo nero è sentito come una minaccia ed è ancora considerato come una proprietà dei bianchi.
«Forse c’è stato, in qualche momento della storia, un grande potere la cui affermazione è stata esente dallo sfruttamento violento di altri corpi umani. Se c’è stato, io non l’ho ancora trovato» scrive Coates.
Se non bastassero la potenza letteraria e lo spessore intellettuale, storico e filosofico delle parole di Coates, a convincere il lettore di questa sconvolgente realtà – che si tende a negare perché "lo schiavismo è stato abolito da oltre un secolo e mezzo" e "il segregazionismo non esiste più" – ecco un'altra curiosa coincidenza. A parlare di “corpi neri” è anche uno dei personaggi intervistati da Ava DuVernay nel documentario 13TH - XIII emendamento, che trovate su Netflix è che è stato tra i candidati all'Oscar 2017 come miglior documentario.
Perché anche Khalil Gibran Muhammad, professore di storia, attivista e intellettuale, fa riferimento ai corpi dei neri? Perché la tesi alla base del film di DuVernay è quella per la quale, attraverso un lungo processo di trasformazioni durato oltre un secolo, l'ipertrofico sistema carcerario americano - quello che per molti è definibile "l'industria delle carceri", la cui popolazione è per il 40% costituita da afroamericani - altro non sia che la prosecuzione della schiavitù con altri mezzi. Il carcere come luogo in cui imprigionare controllare i neri (i loro corpi), e dove farli lavorare e produrre a costo zero.
Se da un lato colpisce questa lettura quasi marxista (e difficilmente negabile) del problema del razzismo negli Stati Uniti, dove la questione etnica e la presunta supremazia antropologica dei bianchi sono al servizio della questione economica e della supremazia del Capitale, e non viceversa, è anche interessante e necessario sottolineare attraverso quali passaggi lo schiavismo è diventato detenzione, passando attraverso altri sistemi di controllo e dominazione, come la segregazione.
Abolita la schiavitù, racconta DuVernay, ha avuto inizio quella narrazione bianca, ancora vigente, per cui gli afroamericani sono stati rappresentati come criminali, ladri, bugiardi, assassini. Drogati, come sarà nel periodo delle guerre alla droga di Nixon e Reagan. Predatori sessuali animaleschi, stupratori, come quello dell'altro Birth of a Nation, quello “originale”, il film di D.W. Griffith cui Parker fa un ovviamente sarcastico riferimento.
La narrazione del pericolo rappresentato dal corpo nero (e di conseguenza la necessità di dominarlo e imprigionarlo, quando non di violentarlo, offenderlo, annientarlo) non poteva infatti non passare attraverso i più potenti linguaggi mediatico di quegli anni, e di tutto il Ventesimo secolo: il cinema prima, e la televisione poi.
Il film di Griffith (che ebbe un'incidenza tanto profonda nell'immaginario collettivo da dare origine, tanto per fare un esempio, alla moderna iconografia del Ku Klux Klan, con i cappucci bianchi e le croci incendiate) è stato solo il primo di una lunga serie che, magari attraverso modalità meno esplicite e più subdole, ha contribuito a legare i corpi neri a un'idea di pericolo, di crimine, di rapacità sessuale minacciosa. O a disinnescare tutto questo presentando i neri come qualcosa di analogo ad un animale domestico, come nel caso della Mamie di Via col vento, o come personaggi del tutto de-sessuati, ergo accettabili e rassicuranti, come il Sidney Poitier di Indovina chi viene a cena?.
Se lo storytelling dominante è stato funzionale alla prosecuzione del dominio dei bianchi e del possesso del corpo dei neri, ha avuto anche un'altra fondamentale conseguenza, che viene raccontata da un altro dei documentari che è stato candidato agli Oscar 2017: I Am Not Your Negro, da oggi nelle sale.
Il film di Raoul Peck è basato su un'opera incompiuta di James Baldwin, scrittore e critico sociale nero capace di un pensiero tra i più trascinanti e incisivi della seconda metà del Novecento: un libro dal titolo Remember This House, nel quale Baldwin, partendo dagli assassinii di Medgar Evers, Martin Luther King e Malcolm X, dalle loro storie e dalla loro vita, parla non solo della violenza costante subita dai neri, ma proprio della questione identitaria che li riguarda. Di come la loro immagine sia costruita e rafforzata dal Sistema dominante, in modo tale da influenzare non solo il pensiero bianco, ma anche la coscienza stessa della popolazione afroamericana.
Se il cinema, e la televisione, propagano l'immagine dei neri di cui parla 13TH - XIII emendamento, anche i neri saranno condizionati da essa. E grande è lo shock, racconta Baldwin attraverso la voce narrante di Samuel L. Jackson in I Am Not Your Negro, quando un bambino appassionato di western, che tifa per John Wayne e i cowboy contro gli indiani, arriva a capire che, in quel quadro ideologico, l'indiano è lui.
Da qui, spiega Baldwin nel film di Peck, la necessità di sviluppare una diversa consapevolezza relativa alla propria identità: passando per la presa di coscienza dei fatti e della storia, per il ragionamento, per l'operato di personaggi come Evers, il Reverendo King, come Malcolm. La necessità di raccontare e raccontarsi in maniera diversa.
Come ha fatto, ad esempio, con tutto il suo cinema, un regista come Spike Lee: fresco del compleanno dei sessant'anni e non a caso autore proprio di un biopic su Malcolm, il cui ultimo lungometraggio, Chi-Raq, parla proprio di neri che devono smetterla di ammazzare altri neri (come fossero dei bianchi), di una nuova coscienza della propria condizione.
E come ha fatto proprio Ta-Nehisi Coates.
Coates - tanto per continuare a unire un po' di puntini e chiudere un cerchio, cercando di comprendere meglio un disegno ampio e complesso, che ancora deve essere ampliato e definito dai neri come dai bianchi - ha scritto il suo “Tra me e il mondo” ispirandosi proprio a un'opera di Baldwin: un altro saggio in forma epistolare del 1963 dal titolo La prossima volta - Il fuoco: due lettere. E proprio Coates, secondo Toni Morrison, è il primo pensatore nero ad aver riempito il vuoto intellettuale lasciato dalla morte di Baldwin.
A prescindere dal valore artistico di libri come quello di Coates, come Lo schiavista di Paul Beatty (vincitore del Man Booker Prize, una satira acidissima nella quale un protagonista si emancipa dalla "dissonanza cognitiva di essere nero e innocente", e si riappropria della propria identità e del proprio corpo riportando in vita il segregazionismo in un sobborgo losangelino che rischia di sparire dalle mappe), o di documentari come quelli di Peck e DuVernay, o dei film di Spike Lee, o magari perfino il Moonlight di Barry Jenkins che ha vinto l'Oscar 2017 come miglior film, appare evidente e urgente la necessità, e la voglia, di far emergere una questione razziale mai estintasi e sempre minimizzata, e di affrontarla contrapponendo allo storytelling bianco dominante un racconto nero che restituisca ai neri la loro reale identità e il possesso del loro corpo.
Se poi qualcuno è convinto che questa questione non ci riguardi, non riguardi tutti noi e tutto il mondo, peggio per lui. Perché, sebbene con tratti diversi (storicamente ed economicamente), anche in Italia abbiamo una questione razziale da affrontare: una questione che non riguarda solo il presente dell'immigrazione, ma un passato nel quale l'identità nera è stata letteralmente rimossa dalla nostra storia. Come dimostra un altro recente documentario passato fugacemente nelle sale, Il pugile del Duce, che racconta la storia del pugile, italiano e nero, Leone Jacovacci: un campione europeo dei pesi medi che venne boicottato dal fascismo perché incompatibile con i suoi ideali, perché l'alfiere del nostro paese non poteva non avere la pelle bianca.
E perché tutti siamo a rischio di vedere la nostra identità eterodiretta, tutti rischiamo di non avere pieno possesso del nostro corpo, anche questo, per citare Coates che cita BaBaldwin, continuiamo a "crederci bianchi".
Lo scrittore James Baldwin si è sempre occupato del razzismo in America. Il documentario prende in esame la sua opera.