Ieri tutto era più bello
La musica tra gli alberi
Il vento nei miei capelli
E nelle tue mani tese Il sole.
(Agota Kristof)
I ricordi del fiume è un film di sguardi. O meglio, un ponte tra sguardi che unisce il noi al loro, il cittadino medio, benestante, colto seduto in una sala cinematografica con l’escluso, il povero, lo straniero che dorme tra i ratti, su una catasta di detriti. Uno sguardo che unisce, in quanto il noi e il loro non sono in conflitto, almeno non chiaramente: che l’isolamento, l’abbandono e l’indigenza di alcuni uomini siano il prodotto di pratiche storiche determinate e ben riconoscibili è in fondo, nel film, una riflessione marginale, lasciata fuoricampo. Ciò che importa è l’oggi, il trovare una sistemazione, il guadagnare qualche spicciolo ma, ancor più importante, il penetrare il muro. È proprio questo che Gianluca e Massimiliano De Serio, registi e artisti torinesi, profondi conoscitori della periferia della loro città, provano a fare con I ricordi del fiume, documentario presentato fuori concorso alla 72ª Mostra del Cinema di Venezia e che approda in questi giorni nelle sale italiane, con un minutaggio decisamente ritoccato (dai 140’ veneziani si è passati a 96’).
Il muro è ciò che divide, non solo simbolicamente, la bella e aristocratica città di Torino con il Platz, una delle più grandi baraccopoli d’Europa, situata vicino al fiume Stura. Qui vivono da anni centinaia di individui cercando una stabilità economica, familiare, emotiva, raccogliendo le briciole dei “cittadini per bene”, rovistando tra i sacchi della loro immondizia e cibandosi dei loro scarti. Quasi d’improvviso, però, un progetto di smantellamento si abbatte sulla comunità. Le persone sono costrette a trasferirsi e ad abbandonare tutto: le coperte, gli animali, i materassi sgualciti, le emozioni di quei luoghi, le amicizie. A questi uomini e queste donne, costretti con la forza ad andarsene, non rimane altro che il ricordo di una vita passata, lasciata con tristezza e dolore ‒ nonostante le privazioni fossero molte, almeno tante quanti i disagi.
Al luogo che li ospita, invece, non resta neppure la memoria dei propri abitanti. In un primo momento le tracce della povertà, accatastate lungo le rive del fiume, sembrano rimanere in un miscuglio nauseabondo di spazzatura, automobili, stracci e pezzi d’arredo. Ma come ricorda quasi distrattamente un poliziotto, tutto è destinato a sparire e la zona verrà ripulita, bonificata. Non si sa come e in quanto tempo, ma prima o poi spariranno anche i detriti più resistenti, le baracche verranno abbattute, i cani randagi finiranno al canile o verranno soppressi, esattamente come verranno ripulite le impronte di quei residenti scomodi, di secondo, terzo, quarto grado. In quel luogo non rimarrà nulla, l’erba crescerà rigogliosa, gli alberi daranno i loro frutti e il fiume si porterà via ogni cosa, ogni narrazione.
Ciò che più colpisce di I ricordi del fiume è proprio la capacità di catturare quell’atmosfera malinconica, decadente ma anche orgogliosa e dignitosa che regna nel Platz, un luogo vitale dove la ricchezza, le comodità e il lavoro sono solo pallide ombre di ciò che è concesso alla gente “normale”. Il racconto della fragilità e vulnerabilità degli abitanti de il Platz, costellato da ellissi, salti e ritorni è reso attraverso lo sguardo di un bambino, di colui che non distingue tra bene e male ma è in grado di soffermarsi sull’espressività di un gesto, sulle rughe di una mano, su un vecchio giocattolo distrutto. I De Serio, infatti, imbastiscono un documentario poetico, d’osservazione, che sospende ogni giudizio e, come accennato in apertura, si fa testimone di un passaggio sociale, esistenziale: la macchina da presa si fa carne e ricordo, cancella la distanza diegetica per trasformarsi in un flusso di corpi, di esperienze, di vissuti.
Echeggiando la struttura episodica di Gianfranco Rosi, sprovvista però di quella plasticità accademica e didascalica, i De Serio riescono a trasformare la perenne dicotomia noi-loro in un unico, universale sguardo che è sia antropologico che politico. Antropologo perché, in quanto osservatori partecipanti, i De Serio entrano in empatia con i cittadini del Platz, colgono il loro punto di vista, si mimetizzano nelle case, assorbono le abitudini, diventano loro consanguinei; politico in quanto I ricordi del fiume è un grande esempio di contronarrazione: in modo delicato e profondo viene data dignità allo sguardo dei reietti, degli esclusi e, più in generale, di chi è espulso dal sistema simbolico di riferimento. E se queste sono destinate a entrare nella nostra vita in modo spesso polemico o umiliante, va ai gemelli De Serio il merito di aver invertito la tendenza e averci mostrato come in ogni uomo e in ogni donna ci sia una poeticità drammatica, una diversità preziosa e una povertà che spesso innalza muri, crea sospetti, alimenta rancori.
Infine, anche se in modo sotterraneo, I ricordi del fiume ci ricorda che il potere non è solo assoggettamento verticale, ma un labirinto di relazioni che attraverso il corpo organizza masse di individui. Ma proprio perché legato al corpo e così onnipresente, la lotta che gli abitanti del Platz, mettono in atto, pur essendo locale e nomade, altro non è che il tentativo di rovesciare in morte la politica della vita, l’età dei diritti. E tutto questo viene fatto con la leggerezza di un bambino, di uno sguardo iniziatico e sacrale che gioca sui detriti di quella che era casa sua, alla faccia del potere, della politica e del loro sguardo.
Torino, Italia. Il Plat‚ è una delle baraccopoli più grandi d’Europa. Un progetto di smantellamento si abbatte su una comunità composta da più di mille persone che vi abita: alcune famiglie rientrano nel censimento della prefettura e potranno essere trasferite in case nuove, mentre il destino di tante altre è di tornare nel Paese natale o cercare un’altra sistemazione di fortuna. In una labirintica immersione, I ricordi del fiume ritrae gli ultimi mesi di esistenza del Plat.