Da sempre, l’attributo fondamentale nell’iconografia della Giustizia è la bilancia, simbolo di simmetria, equilibrio ed equità. Basta poco, quindi, per capire che Il capo perfetto è un film pieno di riferimenti simbolici che mostrano dichiaratamente il senso della narrazione e della critica al sistema capitalista. Una commedia satirica sempre in bilico tra il dramma possibile (ma mai mostrato come tale) e l’ironia, quella scritta e diretta da Fernando Léon de Aranoa, che è un po’ l’altra faccia di I lunedì al sole (2002): se qui la disoccupazione e la dimensione propriamente sociale vengono messe in primo piano, Il capo perfetto guarda invece dall’altra parte della barricata e mostra la controversa gestione dell’azienda dalla parte del patron, cercando di rifuggire i facili moralismi. Il Signor Blanco (Javier Bardem) è proprietario di un’azienda produttrice di bilance, in finale per l’assegnazione di un premio all’imprenditoria locale. Per ottenere l’ennesimo riconoscimento, il capo è pronto a risolvere in ogni modo tutti i problemi che si presentano poco prima della visita della commissione giudicatrice.
Altruista negli intenti ma egoista nelle finalità, Blanco (che non ha figli) è un padre onnipresente – ma non onnipotente – nei confronti dei suoi dipendenti; si eleva al di sopra di loro per dirigerli e giudicarli, ha come unica finalità quella della produttività e dell’efficienza e gli interessa preservare soprattutto la facciata, l’immagine esteriore dell’azienda. Blanco è il filo conduttore di una narrazione collettiva in cui anche lui, come tutti gli altri personaggi, è una pedina all’interno di una scacchiera costruita perfettamente dove ognuno copre, a turno e contemporaneamente, i ruoli opposti del traditore e del tradito, dell’opportunista e dello sfruttato, del vincitore e del vinto.
Così, la retorica di Blanco, il suo continuo tornare sui valori dell’azienda e il suo credo di proprietario accondiscendente, si unisce alla struttura ciclica del film, in cui, nell’arco della settimana lavorativa, tutto torna due volte con segni e valori diversi, dove i discorsi di ringraziamento ai dipendenti si confondono con i commiati funebri. Ma non c’è traccia di pietismo perché il dramma sociale è sempre stemperato da un cinismo graffiante che non risparmia nemmeno l’ultimo operaio licenziato (con i suoi slogan scritti su striscioni e urlati al megafono che sembrano una caricatura).
Tenuto assieme dalla personalità contraddittoria, attraente e respingente del suo protagonista, il racconto è il frutto di una scrittura attentissima ed equilibrata nella descrizione delle relazioni interne a quel sistema capitalista in cui tutto può diventare merce di scambio (dal sesso alla vita altrui) in un vortice opportunista che coinvolge tutti, o quasi, e inghiotte anche chi lo alimenta. «La Giustizia usa bilance Blanco», recita una pubblicità; o, ancora, il principio di indeterminazione di Heisenberg per spiegare le relazioni e l’evoluzione dei personaggi: le contraddizioni di quel mondo sono espresse attraverso un apparato di discorsi, situazioni, immagini simboliche e antinomiche a volte troppo esibite. All’ingresso della Basculas Blanco è posta una bilancia non tarata perfettamente che appare come la soluzione per ritrovare l’equilibrio e che mostra fin da subito il senso del film.
Probabilmente i buoni capi di azienda non esistono e “The Good Boss” ce lo dimostra. Il film si svolge all’interno e intorno alla fabbrica Blancos, dove tutte le cose devono essere sempre in equilibrio. Dopotutto, producono bilance di tutte le forme e dimensioni. Lì, il capo apparentemente benevolo, Blanco (interpretato dal Premio Oscar® Javier Bardem), sta preparando la sua forza lavoro per un’imminente ispezione da parte di un gruppo in visita alle imprese locali per selezionarne una per un premio prestigioso. Ma far sembrare un’azienda in equilibrio e meritevole di un premio, non è una cosa semplice soprattutto se il capo è incline ai disastri.