Mike Flanagan

Il gioco di Gerald

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Dall’ostentare tre libri di Stephen King ben ordinati su una cassettiera in Il terrore del silenzio, Mike Flanagan è passato all’adattarne e dirigerne uno. Reduce dagli spiritismi di Ouija: L’origine del male, non più prodotto dalla Blumhouse per il grande schermo ma dall’impero di Netflix per il proprio on-demand, si è confrontato con ben altri spettri, decisamente più concreti e subdoli, e più spaventosi: perversione, prevaricazione, brutalizzazione.

Per farlo si è servito de Il gioco di Gerald, romanzo privo di facili appigli narrativi per un racconto per immagini, e di conseguenza uno dei pochi del periodo compreso fra gli anni ’80 e ’90 a essere rimasto fino a oggi senza trasposizione cinematografica. Flanagan e il suo abituale co-sceneggiatore Jeff Howard rileggono King con un lavoro di raffinazione raro nel cinema tratto dai libri dell’autore. La loro lugubre sonata da camera non apporta sostanziali alterazioni al romanzo, se non la deduzione di elementi grotteschi per un più asciutto scandaglio psicologico della follia della protagonista.

Ammanettata a letto e prigioniera di sé stessa prima ancora che del marito – morto in seguito a un gioco erotico e steso lì al suo fianco – la donna affronta l’indotta immobilità e l’oscurità del proprio destino: chi mai potrà salvarla, nell’isolamento di quella casa lontana da tutto e da tutti? Costretta a fare i conti con i mostri del suo passato, capisce come gli abusi subiti dal padre e la relativa menzogne che sgretolarono la sua infanzia non siano mai stati superati e anzi abbiano pesantemente condizionato la sua vita coniugale. È il dialogo costante che la donna intrattiene con le proiezioni di sé, del marito esanime e del padre a servire da terapia. Flanagan evita il delirio incontrollato di voci e pensieri creato nel romanzo da King, scegliendo invece una polifonia scarna che si esprime teatralmente con diversi faccia a faccia fra i personaggi, movimenti misurati e un montaggio narrativo fluido.

Non mancano certo alcuni momenti figurativamente più ricercati: dalla parentesi tetra, sospesa fra incubo allucinatorio e realtà, in cui un uomo mostruoso emerge dal buio della stanza in cui la donna è prigioniera, alla sequenza in flashback dell’eclissi di sole – momento chiave di recupero nella memoria della protagonista – virata su un rosso acceso che diviene accecante nel momento della violenza. Anche in questi casi, però, la narrazione si mantiene silenziosa, orribilmente naturale, l’eccesso fotografico sempre funzionale al racconto.

Sono ridotti al minimo anche gli effetti horror, decisamente gore per quanto forse superflui, concentrati verso la fine, quando la protagonista decide di dare una svolta alla propria coercizione. L’accelerazione ritmica trascina però lo spettatore verso un finale consolatorio, con la stessa protagonista a parlare in voce over e ad affidare le proprie riflessioni in una lettera indirizzata alla ragazzina che fu.

Flanagan trae le fila dell’esperienza in modo forse didascalico, senza rendere giustizia al portato emotivo del romanzo, fino a quel momento rappresentato con la forza e l’originalità di un regista tra i più promettenti dell’horror contemporaneo.

Il gioco di Gerald
Usa, 2017, 103'
Titolo originale:
Gerald's Game
Regia:
Mike Flanagan
Sceneggiatura:
dall'omonimo romanzo di Stephen King, Jeff Howard, Mike Flanagan
Fotografia:
Michael Fimognari
Montaggio:
Mike Flanagan
Musica:
The Newton Brothers
Cast:
Bruce Greenwood, Carel Struycken, Carla Gugino, Gerald Burlingame, Henry Thomas
Produzione:
Intrepid Pictures
Distribuzione:
Netflix

Ammanettata al letto per un gioco erotico, Jessie Mahout provoca involontariamente la morte del marito. Sola, al crepuscolo, e con nient'altra compagnia che sé stessa e i suoi pensieri, Jessie si rende conto che nessuno può aiutarla. La casa si trova in una zona isolata, è autunno e nessun passante o turista può trovarsi nei paraggi.

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